Paolo Gorini, con i suoi ricordi, ci racconta la vita nel “Castello”.
Eh si, posso definirmi un ex castellano, non nobile magari, però nemmeno tanto decaduto, potrei dire nello stile di Totò: “cari miei e io ci nacqui!!!".
A Sesto San Giovanni, all'inizio del secolo (oggi dobbiamo specificare il XX°), non c'erano molte case, non c'era asfalto, il vialone principale che collegava Milano a Monza era tutto piantumato con due file di platani secolari ai lati della strada; i vecchi ricordano che i rami degli alberi prima della guerra riuscivano a toccarsi. Nonostante i tronchi fossero a una decina di metri di distanza in estate, nel mezzo del viale, la luce filtrava appena. In viale Casiraghi, ex viale Umberto I°, si decise di costruire una casa: ai tempi le case erano solo popolari, sul territorio erano ancora numerose le cascine. Le dimore ricche, di proprietà, erano solo le ville, e Sesto, cosa incredibile per il giorno d'oggi, ne era piena, erano le residenze di "campagna" dei ricchi milanesi o le “recenti” ville costruite vicino alle “moderne” fabbriche create dai
nuovi piccoli/grandi imprenditori. Un esempio, il più rappresentativo, Villa Campari, costruita al fianco dello stabilimento omonimo.
In viale Casiraghi al 115 si decise per una casa popolare, rigorosamente in affitto. Fra la gente comune non c'erano proprietari, si pagava la propria quota alla fine del mese: "el fit". Il costruttore volle una casa diversa dal solito, un segno distintivo che rendesse importante una costruzione qualsiasi, voleva un castello per se’ e per i condomini. E castello fu!
Un edificio senza alcun valore storico, ma con un’ estetica del tutto simile ad un maniero d'altri tempi. Sul fronte verso il viale un alto
muro di cinta, tutto merlato abbracciava un cortile dalle dimensioni impensabili al giorno d'oggi. La struttura comprendeva una torre anch’essa tutta merlata che si stagliava alta su tutte le altre case, un'altezza pari ad un moderno palazzo di 6 piani: per l'epoca una cosa impensabile. Il castello aveva un suo ingresso con una carrereccia e un enorme portone di legno massiccio che veniva chiuso la sera, lasciando aperta solo una porticina per il passaggio delle persone. Ai bordi della carrereccia si estendevano, per tutto il lato anteriore della costruzione, dei giardini, cintati da mura merlate e cancelli di ferro battuto. E' in questa casa che mia nonna novella sposa, ha deciso un giorno di andare a vivere, in questa casa è nato mio padre e tutti noi. Lo stabile era proprio tipico della fine del XIX secolo, con però alcune modernità: ogni piano, aveva un grosso lavandino in cemento, ovale, tutto decorato con fregi in rilievo, sul lato destro c’era la lunga leva di una pompa che permetteva di fare arrivare l'acqua al rubinetto: per la prima volta si evitava di dover scendere in cortile a prendere l'acqua e portarla ai piani con i secchi.
Quando siamo nati noi, erano ormai decenni anni che l'acqua era stata portata nei singoli appartamenti ma non c'era la possibilità di installare scaldabagni, quindi dal lavare i piatti, al lavare i panni, alla pulizia personale tutto veniva risolto a pentolate di acqua sul gas.
Il gabinetto era in comune e rigorosamente di ringhiera, alla sinistra della porta di ingresso era fissato un candeliere a permettere di poter sbrigare le faccende corporali di notte, bastava una candela ed un fiammifero. Le scomodità erano parecchie se raffrontate alla vita in una casa
moderna, ma anche i ricordi belli sono molti. Il cortile era enorme, molto vissuto, anzi era il centro della socialità dello stabile dopo le ringhiere: la gente si ritrovava a parlare, i bambini potevano giocare, (tutti abbiamo imparato ad andare in bicicletta in cortile).
In punti strategici erano posizionate orizzontalmente due ex macine di mulino dal diametro di circa due metri, in pietra bianca, che servivano come un'enormi panchine; ci si sedeva a fare crocchio con i vicini, mi ricordo, le "nonne" con il fularino in testa sedute in fila all'ombra su uno sgabellino a fare la maglia e a raccontarsi chissà quali storie di vita vissuta o di speranze future. Il lavatoio era una costruzione a sé stante, tutta archi, piena di mastelli e pentoloni appesi ai chiodi ed un camino su un lato dove una volta si bolliva la biancheria in acqua e cenere e che poi, con l'avvento delle lavatrici, non è certo caduto in disuso: lo si usava per produrre salsa di pomodoro sterilizzando decine di bottiglie per volta in enormi pentoloni. Tutto il materiale del lavatoio, mastelli, pentoloni, pertiche per stendere eccetera erano proprietà
comune dei castellani. I ricordi sono tanti, si rincorrono, impossibile fermarli tutti. Ricordo sempre in maniera fervida l’estate, per un bambino
è sicuramente la stagione più bella. Salivo in casa accaldato, tre piani di scale, l'uscio di casa perennemente aperto, "el tendun" a fare da porta, "i gerusii”, le gelosie, accostate, la tenda verde di canapa intrecciata alzata a proteggere l'ombra, il tappo nel lavandino di granito, sempre un "pisin" d'acqua che scorreva e la frutta a bagno per tenerla “in fresc”, chi arrivava in qualsiasi momento, pescava dal lavandino
uno spuntino fresco e sano. C’era un grande ambiente comune “la cusina” con un tavolo enorme, intarsiato, i mobili in "cipendal" come diceva mia nonna, tutti pieni di fregi, lavorazioni e specchietti, la piccola dispensa che si riempiva di frequente, attingendo dalla cantina. Le cantine erano basse, a volta, con i pavimenti di terra battuta, buie, freschissime. Inverno: non esistevano ovviamente i termosifoni, c'erano le stufe,ma quelle moderne a gas o a kerosene, comodissime: producevano un calore umido che faceva trasudare i muri, soprattutto quelli a nord, gli ambienti e gli arredamenti si stabilivano anche in base ai punti cardinali, (dove sta oggi il nord in una casa??) e allora si utilizzavano solo stufe a legna che avevano un bel calore secco in grado di mantenere asciutti i muri, dalle "economiche" Osva, in ghisa, che permettevano anche di cucinare, prodotte nel dopoguerra ed arrivate a noi dopo essere state comprese nella dote delle nonne, le più moderne warm morning in acciaio, quelle in terracotta pesantissime, in grado di mantenere il calore anche ore dopo lo spegnimento.
L’inverno voleva anche dire un grosso lavoro fisico, in giardino a immagazzinare, spaccare, trasportare legna, carbone, le tavelle, il cook, un impasto più economico, ma meno calorico. Quanti piani, quante scale, per portare la legna su in casa dal giardino, ma cosa non è il calore
variopinto di un fuoco di legna rispetto al tepore di un freddo termosifone? In inverno era proprio un “mangià al cald e durmì al frecc”,
mangiare al caldo e dormire al freddo, non c'erano automatismi che regolassero la temperatura, se di notte non ti alzavi a mettere legna nella stufa (e non avveniva mai) quella si spegneva e poi al mattino, il primo che si alzava (sempre la mamma ovviamente) doveva correre ad accenderla ed aspettare che questa cominciasse a scaldare la casa, la cucina per prima e poi, per diffusione, il resto delle stanze. Ricordo il ritorno da scuola nella neve, con i piedi intirizziti, frenare l'appetito pur di potersi mettere qualche minuto con i piedi accanto alla stufa caldissima, nell’attesa buttarci su un pezzo di pane, qualche castagna, una crosta di grana, toglierli in fretta, prima che si bruciassero e mangiarli in punta di denti. Sapori perduti come i profumi. Le stufe risolvevano anche gran parte dei problemi dello smaltimento dei rifiuti. I contenitori plastici, di polistirolo, non erano ancora arrivati sul mercato, non si acquistavano grandi quantità di scatolette, gli impacchettamenti dei prodotti alimentari nei negozi venivano realizzati in carta di giornale, quindi niente raccolta differenziata, tutto quanto era abile a produrre calore finiva per alimentare la stufa.
Ripensando a queste cose mi sembra proprio di aver vissuto un'infanzia strana, atipica. Vivevo nella città più moderna, più avanzata e ricca d'Italia, ma al contempo calato in una realtà di altri tempi, ormai completamente sparita e quasi dimenticata. Tutto sommato mi rendo conto adesso di avere avuto una grande fortuna. Il grosso dispiacere di queste situazioni è che quando le vivi ti sembrano normali, oppure limitanti, solo dopo, quando è tardi, ti rendi conto di quanto siano state importanti, magari uniche per uno della tua generazione. Potete ben immaginare come giocare da bambini in un posto del genere fosse da autentico delirio, eravamo già completamente immersi nel film, nella favola, senza contare che gli spazi di gioco erano veramente enormi.
Un ricordo vivido.
Una sera d’estate, dopo cena: troppo presto per portare a termine alcune cose e ormai troppo tardi per cominciarne altre, dal centro del cortile si vedono tutte le finestre aperte, si sente solo un sommesso vociare ed il rumore delle posate nei piatti, tutto ha i colori della luce offuscata della sera, degli ultimi raggi di un sole che andandosene comincia a lasciare il posto alla notte, il cielo è tutto un volteggiare di pipistrelli. Il cortile in questo momento più di altri è il regno incontrastato dei bambini del castello, il momento dei giochi pacati, delle chiacchiere e dei progetti per il giorno dopo, uno dei momenti ideali per fare una delle prime e più grandi scoperte della vita. In quegli anni eravamo un gruppo molto nutrito di mocciosi ipernutriti. Ci eravamo fermati a guardare la luna, fissa, tonda e splendente appiccicata al cielo ad un lato della torre. Per seguire una qualche idea che aveva voglia di essere rincorsa ci siamo incamminati. A un tratto, guardando ancora il cielo, abbiamo visto che c'era ancora una luna dall'altra parte della torre. Ma come? era di là solo qualche secondo prima?!? Torniamo indietro di un po' di passi, la luna è ancora da questa parte. ma cosa succede, la luna ci segue o ci sono due lune?
Noi che eravamo furbi abbiamo pensato subito ad uno stratagemma per risolvere l’arcano, per fregare la luna, alcuni sono rimasti fermi su di un lato della torre, altri sono andati a vedere dall'altra parte. Una volta arrivati in posizione ci siamo guardati, con una certa meraviglia abbiamo dovuto constatare che si, c’erano due lune. Ognuno dei due gruppi, ora vedeva la sua luna, impossibile vedere contemporaneamente anche quella degli altri. Ecco dove stava l'arcano, la soluzione poteva essere una sola: ognuno poteva avere una propria luna, ognuno poteva vederla
diversa da quella di tutti gli altri.
Paolo Gorini