Olio «classico», «delicato», «robusto». Succo di frutta «naturale al 100%». Passata «vellutata».
Dagli scaffali del supermercato i prodotti ci attraggono così. Anche se dal punto di vista giuridico e nutrizionale questi termini non significano nulla: «Sono slogan, parole usate dalle aziende per catturare l’attenzione di chi compra e indirizzare il comportamento di acquisto», spiega Gabriella Lo Feudo, esperta di etichette alimentari per il Crea, l’ente italiano di ricerca agroalimentare vigilato dal ministero delle Politiche agricole. Quelli citati «sono casi fuorvianti perché suggeriscono caratteristiche del prodotto che non trovano un riferimento concreto nell'etichetta, ma accettati. Se invece — aggiunge Lo Feudo — vediamo in corsia un “miele naturale”, il produttore è passibile di sanzione: tutti i mieli, in quanto secrezione delle api, lo sono».
«Sembrerà banale, ma dobbiamo imparare a leggere l’etichetta. Se non lo facciamo rinunciamo a un nostro diritto, quello alla consapevolezza. Anche perché le informazioni ci sono». E non sono nemmeno poche: «La normativa di riferimento in Europa è il regolamento 1169/2011, a cui poi si aggiungono le integrazioni nazionali — spiega Stefano Vaccari, direttore generale del Crea —. Il consumatore italiano è quello più tutelato». Ma spesso non riesce a decodificare tutto ciò che un’etichetta contiene: «Possono essere labirintiche, enigmatiche. Serve un po’ di cultura di base», insiste Lo Feudo. E un certo disincanto: «Nei pochi centimetri quadrati di un’etichetta — continua — si configura un complesso mosaico di interessi, anche contrastanti tra loro: quelli industriali e agricoli di un Paese, quelli commerciali delle aziende e la tutela della salute di chi acquista, principio fondante del regolamento 1169/2011».
«Chi compra deve sapere cosa guardare». E cioè: «La lista degli ingredienti, quella che a casa chiameremmo ricetta: il prodotto è fatto in quel modo lì. Si compila in ordine decrescente, dalla sostanza più presente a quella in tracce. Leggiamo e chiediamoci: è quello che ci aspettavamo?». Esempio: se si vuole un tè al limone e si nota, leggendo l’etichetta, che il 90 per cento è acqua, che al secondo posto c’è lo zucchero e il tè è ultimo, beh, vale la pena riflettere.
Per esempio l’etichetta a batteria (non obbligatoria) rappresenta con delle percentuali quanto quel singolo alimento concorre al fabbisogno giornaliero di un adulto medio in termini di energia (calorie), grassi, grassi saturi, zucchero e sale. Non se ne vedono ancora in giro perché le aziende hanno bisogno di tempo per la ristampa delle etichette. Molto criticate — secondo i detrattori hanno il torto di usare come riferimento le linee guida italiane, più generose di quelle dell’Oms —, sono la risposta alle NutriScore francesi, che danno invece un «voto» alla salubrità dell’alimento, da A a E. «Un sistema — spiega Vaccari — che avrebbe danneggiato il made in Italy: l’olio extra vergine d’oliva, per esempio, sarebbe risultato troppo grasso, quando invece è la chiave di volta della dieta mediterranea». Magari, però, senza più «classico» in etichetta, come auspica Lo Feudo: «Meglio mettere la quantità di vitamina E, i polifenoli, i grassi “buoni”. Le informazioni importanti sono queste: se il consumatore le conosce, le può anche pretendere».