La bellezza del Festival di Venezia sta nei suoi sotterfugi, poiché la direzione dà l’impressione di aver fatto solo cose sublimi, quei magnifici attori, quei magnifici film: si concede il lusso di apparire responsabile di meraviglie e qualità.
L’apparato cinema italiano può dire: “ecco quello che vi offro ed è il meglio”, ipocrisia sublime ed indispensabile.
Sicuramente per le chiacchiere da salotto e la messa in scena dei film sul mercato internazionale, ma anche per fare il punto sui cambiamenti che attraversano la società italica.
Di questi fa parte la grave e “silenziosa” mancata assegnazione del premio Lina Mangiacapre atto a “segnalare i film che mostrano nel segno della differenza il cambiamento dell’immagine della donna, soggetto di storia e cultura”.
Non sono mancate le motivazioni di questo gesto ma sono mancati probabilmente gli interessi o forse si è certi che ormai l’immagine della donna sia rigida e statuaria.
Difficile capirlo se si rimane sul Festival, più catturabile se ci si guarda in giro fra pubblicità, giornali ecc...
Ritornano in mente le parole di Pasolini sui moralisti, che sul biopic dedicatogli da Abel Ferrara hanno avuto da polemizzare senza volersi accorgere che un soggetto del genere sarebbe stata una valida riflessione globale che nessuno ha mai voluto affrontare apertamente.
Ma a questo Festival i ragionamenti sono appannaggio esclusivo dei piccioni, di Andersson (vincitore) o di Piazza San Marco è indifferente: loro sì che sono i padroni del mondo.