Una premessa è dovuta. Personalmente non so quanto possa valere una “critica” cinematografica di un film incompiuto. “Hunger Games: il canto della rivolta, parte 1” è la prima metà del terzo capitolo della saga giovanile più cool del momento, quindi un film a tutti gli effetti mancante non avendo chiuso l’intera trilogia e nemmeno l’ultimo atto.
Trascurando questo fatto non da poco, questo pezzo di pellicola è davvero brutto.
E’ una questione di racconto. Tutti i 123 minuti sono oscillazioni di ansia della protagonista e bastardaggine senile del vecchio nemico. Altro non dice, è tutto un "bla bla bla".
Qualcosa si salva se si analizzano le tematiche. Mai come in questo frammento, il cardine di questa saga risulta così limpido. “Hunger Games” è la storia di un conflitto tra ragazzi e mondo mediatico. Un mondo vecchio, sorpassato da anni che però, come le automobili, è ancora utile; almeno in apparenza. Usurpatore del talento, del gioco, dell’esplorazione e della politica, è un linguaggio a cui ci si dovrebbe ribellare, almeno secondo i film.
Un giovane è condannato a mostrare il suo talento nel circo di selezioni, giudizi e costruzioni di immagine. La scena in cui lo stratega ribelle cerca di creare l’eroina con il suo messaggio politico che diffonda speranza è davvero esemplare.
Per nulla brillante nella realizzazione, illumina però sul mondo reale. Mi è facile citare riferimenti reali come politici oppure falsi miti come Saviano o Steve Jobs. O, nella sfera più terrena, i ragazzini “genuini” di X-Factor.
Dunque, questo “salva” “Hunger Games” lasciando correre che non è come la serie “Black Mirror” o film epocali quali “Quarto Potere” o “Quinto Potere”. Ma cito Welles e Lumet, nomi lontani e che mancano per costituire un cinema profondamente contro.