The Imitation Game è un film su Alan Turing e allo stesso tempo non lo è. E’ la storia di persone, se preferite, personaggi diversi dagli altri individui sociali e la loro mission di decifrare Enigma, l’inespugnabile macchina tedesca delle comunicazioni. E’ anche una storia di macchine, anzi del primo computer.
Ma è anche la storia di atteggiamenti che sono effetti della macchina dopo e comportamenti nuovi prima, e che oggi ci appartengono molto.
Il decodificare gli altri, il cercare di sintonizzarsi sulla loro onda, l’avere un unico punto di vista, avere dei segreti e criptarli per non farli emergere in pubblico, la volontà di prevedere, non accettare la diversità e soffocarla in pratiche standard sono roba nostra. Cucita, pulita e linda.
Ciò che non ci appartiene più è la morte dell’eroe non più al di sopra di tutto. Mi si obbietterà che per questioni biografiche, la morte era necessaria.
Certo, ma non è necessario menzionarla e il lieto fine è sempre facile a farsi. Invece la decisione è di quelle azzeccate perché il pubblico deve sapere, di cronaca, cosa passavano certi diversi se venivano o si rivelavano tali pubblicamente.
Turbarsi però è altra cosa e comunque vada la visione, alla fine, ci troviamo soddisfatti, come dopo A Beautiful Mind o simili.