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Mad Max - Fury Road

Fuga dal cinema d'azione a cui ci siamo abituati negli ultimi anni

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Nervoso, gutturale, rauco e profondo, il motore si accende al marchio Warner Bros. sullo schermo trasformando la sala cinematografica nell’abitacolo di una macchina. Mad Max - Fury Road piuttosto che iniziare si accende e fa sentire il respiro di un culto assopitosi trent’anni fa.

Ricucendo le fila con il primo capitolo della celebre trilogia di George Miller, questo macchinario riassemblato procede a tutto gas nella polvere del deserto dei film d’azione fatti come si deve. La sceneggiatura innanzitutto non ha perdite, raccoglie e fa scorrere liberamente una storia semplice: un gruppo di modelle delle serate milanesi si stufa di fare da schiava produttrice di figli al tiranno di turno e coinvolge il nostro amatissimo protagonista nella fuga verso la speranza di un mondo migliore. Addirittura, si controlla automaticamente i livelli di temperatura intervallando scene di afa e surriscaldamento, coincidenti con l’azione roboante e lirica, con scene di fresco e rifocillamento pari agli attimi di pace.

D’altronde, è questo il criterio dei cambi di marcia nella narrazione di un inseguimento. In fin dei conti, Duel di Steven Spielberg è stato il motore auto-cinematografico per eccellenza, perché cambiare quando il suo impianto funziona alla perfezione anche oggi? Lo chiedo a quelli di Fast & Furious che hanno frainteso.

Scrivevo personaggi, appunto, rappresentati in questa occasione senza approfondimenti, rimandati all’immaginazione (questa sconosciuta). Max (Tom Hardy) non ha bisogno di presentazioni così come gli altri non necessitano di mostrare il loro lato debole, sporco. George Miller è chiaro quando tratteggia Furiosa (Charlize Theron) e non pecca nemmeno ad un accenno di Megan Gale. Sì, quella della Vodafone e di Vacanze di Natale 2000. Un buon motore valorizza qualsiasi componente che gli per mette di performare al meglio.

Quindi la regia è clinica e priva di inquadrature senza senso; il massimo permesso è l’accelerazione della scena, un concerto Rock live e qualche inquadratura dall’alto o dal punto di vista di un rottame volante. Nemmeno il sangue è di troppo.

Stranezze per un giovane spettatore contemporaneo, raffinatezze se si considera questa modalità primitiva di rappresentare la simbiosi uomo macchina. Un rapporto che però non vale più per Max Rockatansky, la quale Interceptor viene debellata immediatamente. E’ questo scorporamento dell’auto dalla concezione di tempo, di spazio e distanza che gli permette di avvicinarsi alla redenzione. E’ questo che ha portato la conventicola aristocratica del Festival di Cannes ad una standing ovation.
Poche chiacchiere e cinema a manetta.

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