Meno di una defibrillazione cardiaca o di una puntura intravertebrale per risvegliare l’intorpidito sistema nervoso di una nazione. Si è rifatto vivo il pubblico italiano a cui voglio deplorare la mania sfrenata di voler contribuire a quel mondo televisivo generalista, che infinitamente disprezza, attraverso l’apporto negativo della ghigliottina.
Dopo la proiezione del film di Paolo Sorrentino ho sentito “Non ha storia”, “Non emoziona”, oppure “E’ zeppo di luoghi comuni.” Una manciata di tasti sotto i polpastrelli, e ciascuno si scopre la vocazione di giudice alla X-Factor o Masterchef; una cosa davvero odiosa. Youth – La giovinezza può avere dei cedimenti, ma per poco o nulla che si ami il cinema italiano c’è più piacere e intelligenza da trarre dalle sue pecche che da tutti interi i film “generalisti” o “americani” degli ultimi anni.
Mi schiero apertamente dalla parte del film quando con uno “stereotipo” uno dei personaggi ammette una sua verità valida anche per un metro di attacco o difesa filmica: “Le persone o sono belle o sono brutte, in mezzo ci sono soltanto i carini.” Un film o è bello o è brutto, non ha mezzi termini. A qualche lettore si alzerà la pressione leggendo questo; non se la prenda, ma piuttosto rifletta su cosa sia un luogo comune.
Sorrentino ha corso dei rischi sceneggiando e dirigendo Youth – La giovinezza sperimentando un campo orrorifico per una certa popolazione avvinghiata all’eterno e all’altrove, come quello del Vuoto. Naturalmente, il senso di questa figura metaforica che nella pellicola è accompagnata dalla presenza di un monaco levitante, è Zen. Il cogliere l’attimo nella vita, l’immediatezza della libera creazione artistica non condizionata dai sensi e dall’intelletto, creare ciò che è privo di forma e suono, il non assecondare astrazioni o concettualizzazioni, la rivelazione del nascosto nel trascorso quotidiano, sono elementi che del film ne strutturano la rappresentazione e nello Zen la sua essenza. Il cerchio diventa allora, la partitura di un sceneggiatura che è tale e quale a una musica; è e basta.
C’è anche dell’altro, visibile in due scene. La prima è legata all’orientamento di un binocolo panoramico e la seconda alla figura di una giovane massaggiatrice. Se il primo rivela come si osservano le cose in momenti diversi della vita, la seconda spiega il suo metodo di conoscenza del mondo attraverso il tatto e l’udito. La massaggiatrice conosce i suoi soggetti grazie allo sfioramento epidermico, la felicità attraverso la porosità del volante di una giostra, l’impalpabilità della fantasia tramite il virtuale di un videogame. Non sa guardare ne capire con gli occhi eppure delega la funzione al senso per lei principe. Quindi capisce e vede.
Almeno lei, un carattere fittizio contrario a un individuo reale i cui sensi sono sovrastimolati e massaggiati perennemente, e forse per questo incapace di esercitare queste funzioni elementari. Ma come dice il personaggio interpretato da Jane Fonda, Brenda Morel, il futuro è la televisione non quella stronzata del cinema. Un atto di leggerezza del personaggio, un atto di leggerezza nostro il quale prezzo da pagare consiste, anche, in questo.