BIOGRAFIA
Mauro Santomauro è nato nel 1949 ed è stato farmacista della Serenissima, salendo alla ribalta delle cronache quando rinunciò a trasferire la sua farmacia in terraferma. Nella sua vita è stato chimico, distillatore, imprenditore e contadino e si è divertito come giocatore e poi allenatore di baseball, batterista in un settetto jazz, maker ante litteram come produttore di accessori d’arredo. Ha pilotato aerei da turismo e ha praticato immersioni subacquee. La sua vera passione è il buon cibo. Vive con la moglie e i due figli a Treviso.
PRESENTAZIONE
Caro Lettore,
Fedora Milano non sa darsi una spiegazione: il direttore della sua testata l’ha fatta rientrare dalle ferie per andare a intervistare il direttore di un’ antica farmacia veneziana, fondata cinquecento anni prima. Niccolò Bellavitiis è un uomo tanto colto ed enigmatico quanto affascinante e il suo racconto sull’arte della cura è ipnotico, ma perché tanta fretta?
Improvvisamente l'attenzione della donna è calamitata da un misterioso contenitore in peltro. Quello strano recipiente, spiega Bellavitiis, serviva per trasportare la Theriaca, un composto chimico di origini antichissime la cui formula nasconde delle proprietà molto potenti in grado di cambiare le sorti dell’intera umanità, un fluido foriero di una sapienza ambita e pericolosa che trascinerà Fedora in uno spaventoso tunnel senza fine….
BUONA LETTURA...
LA CONGIURA DELLO SPEZIALE
Capitolo Uno
Venezia, Ponte di Rialto, 4 dicembre 1537
Lodovico scese lentamente i gradini del Ponte, un po’ inquieto al pensiero che, proprio in quel punto, suo cugino Vincenzo Quadrio fosse morto nel crollo del precedente viadotto in legno che univa le due rive del Canal Grande. Sembrava che un destino beffardo, o forse solo l’imprevidenza e l’ignavia degli uomini, non volesse che il mercato di Rialto (punto nevralgico degli affari, dei commerci e cuore politico di Venezia) avesse il suo ponte: già nel 1310, infatti, il vecchio ponte di barche venne danneggiato durante una rivolta che minacciò di destabilizzare la stessa Serenissima; e ancora, nel 1444 quando la struttura in legno cedette rovinosamente, per la gran folla accorsa ad assistere al passaggio della sposa del marchese di Ferrara.
Fu nel 1524 che Vincenzo, poco più che sedicenne, figlio di sua zia Antonia e di un anno più anziano di lui, affogò nelle putride acque del Canal Grande. Quel ponte di legno, che centinaia di uomini di affari, servi, banchieri, nobili, funzionari e commercianti attraversavano ogni giorno, fra botteghe e bacari aggrappati pericolosamente ai bordi esterni, in una mattinata non particolarmente ventosa, schiantò in un raccapricciante stridio di marcescenti assi divelte e di ferri arrugginiti dalla salsedine.
Tra le macerie galleggianti, nel bel mezzo di frutta e verdure varie precipitate, tra quarti di bue e coratelle di agnello rovinate, semi nascosto dalle pezze di broccato e di mussola provenienti dalle botteghe ormai sradicate, galleggiava a faccia in giù il corpo di Vincenzo, apprendista speziale della Serenissima. La sua sfortuna era stata quella di essersi alzato più presto del solito per aprire di buon mattino la bottega ai piedi del ponte di Rialto, l’antica spezieria Alla Testa d’Oro, ove prestava la sua opera come studente praticante di farmacia in attesa di ottenere l’attestato che gli avrebbe permesso di aprirne una tutta sua.
Il destino volle, quel giorno, che Vincenzo, provenendo da Campo San Bartolomio, giungesse alla sommità del ponte nel momento esatto in cui questo crollò e venisse trascinato nella rovinosa caduta che lo tramortì prima e l’affogò poi, consegnandolo infine al canale che divenne la sua ultima dimora. Soltanto nel 1591 i veneziani si decisero finalmente, dopo crolli e incendi, a sostituire il loro ponte più importante, ma più indecente, con uno fatto finalmente in pietra, disegnato da Antonio da Ponte, un architetto svizzero che soffiò l’incarico al nostrano e più famoso Andrea Palladio, progettandolo ad arcata unica con negozi su entrambi i lati, ospitati ciascuno in un porticato coperto e poggiato, come una palafitta, su migliaia di pali in legno d’olmo piantati sulle opposte rive del canale a fargli da fondamenta.
Splendida opera di architettura e ingegno rivestita di elegante Pietra d’Istria che avrebbe resistito fino ai giorni nostri, affinché milioni di turisti provenienti da tutto il mondo potessero fotografarlo e mostrarlo come trofeo digitale ad amici e parenti. Ovviamente tutto ciò non avrebbe consolato il povero Vincenzo. Come pure il sapere che l’essere meno solerte e mattiniero gli avrebbe salvato la vita. Ma allora non avremmo potuto raccontare e leggere questa storia.
Di buon passo, facendosi strada e destreggiandosi tra i mercanti e i compratori, Lodovico attraversò l’Erbaría, la Casaría, la Naranzaría, la Beccaría e la Pescaría (nell’ordine: il mercato di erbe, formaggi, agrumi, carne e pesce) i cui prodotti provenienti dalla laguna e dalla terraferma, ma anche da lidi lontani ed esotici, riempivano l’aria di afrori stimolanti e di ammorbanti fetori, tra grida e richiami in veneziano e in idiomi foresti. In quel momento, i barcaioli delle peate e delle batéle stavano scaricando le merci appena trasportate dalle navi provenienti dall’Oriente, dall’Occidente e dalle città della terraferma, domini di Venezia: zucchero di Candia, pepe, comino da Malta, noci di galla e moscate, scorpioni vivi dal Marocco, balsamo del Perù, canfora, oppio, benzoino, muschio, incenso, pietre preziose e persino vipere dei Colli Euganei, destinate certamente a qualche spezieria.
Scese lungo la ruga degli Oresi e si diresse verso il Palazzo del Magistrato dei Dieci Savi, dove si pagavano le Decime, cioè le tasse o gravezze, che colpivano le rendite sugli immobili situati nel Dogado. Allo scoccare del mezzogiorno si sarebbe dovuto incontrare con il N.H. Domenico Bembo con il quale avrebbe stipulato, davanti al notaro Candiani, il contratto di affitto per dei locali in San Luca, adibiti a bottega e sovrastante abitazione, per quarantaquattro ducati l’anno. Un buon prezzo per una zona così centrale, a metà strada tra Rialto e San Marco.
Lodovico era eccitato pensando che, dopo, avrebbe fatto una capatina nella zona delle Carampane, fino al Ponte delle Tette a far visita a quella nuova ragazza, Veronica, dagli splendidi capelli rosso Tiziano (come si usava tra le meretrici dell’epoca) che trovava così belli i suoi grandi e penetranti occhi neri... Faceva freddo quella mattina di dicembre e Lodovico si strinse nel suo ferariol de budrato fodrà de ormesin ovvero un tabarro foderato della seta proveniente dalla città di Ormus, che la Vecchia gli aveva finito di cucire per l’occasione.
La Vecchia era sua zia Antonia (la madre dello sfortunato cugino Vincenzo) che nel Sestriere di San Marco, da tempo, tutti conoscevano con quel nomignolo. Non era un inelegante epiteto riferito alla sua età (aveva “ solo” quarantacinque anni, tuttavia non pochi per quell’epoca) o agli abiti sempre scuri e dimessi che abitualmente indossava, ma piuttosto un’amara allusione all’aura di annientamento che la permeava, allo sguardo anzi tempo avvizzito e stanco di chi ha visto la speranza e l’illusione della gioventù, ma che troppo precocemente ne ha visto morire i frutti.
E uno di quei frutti, il miglior virgulto cui affidare il perpetuare della sua linfa, suo figlio Vincenzo, giaceva nell’umida terra del Campo Santo della parrocchia di San Paterniano. Ma il Cupo Mietitore aveva già maramaldeggiato sulla sua famiglia.
Alvise, il marito di Antonia, della Vecchia insomma, per anni era stato pratico di bottega presso la spezieria Alla Testa d’Oro fino a quando morì precocemente. La causa della sua morte era dovuta, quasi certamente, all’avvelenamento da arsenico e mercurio contenuti nel cinabro nativo, un minerale che si credeva curasse l’epilessia e la sifilide e che a lungo (anche se già alla fine del Duecento le leggi ne proibissero la lavorazione a Rialto) egli aveva macinato nei pesanti mortai del laboratorio, assorbendone quantità alla fine letali.
Aveva lasciato la moglie, un figlio quindicenne e un piccolo gruzzolo che sarebbe dovuto servire, un giorno, ad aprire una bottega da speziale se e quando il suo giovine erede avesse avuto la capacità, l’energia e la costanza per ottenere il Privilegium in Arte Aromataria. Questa era la certificazione che la Serenissima concedeva a chi volesse esercitare l’arte tramandata da Galeno e da Dioscoride. Sino al Settecento a Venezia non esistevano insegnamenti strutturati come i moderni corsi universitari, ma erano gli stessi speziali, riuniti in Fraglie o Collegi, che sottoponevano gli aspiranti futuri colleghi a un severo e spossante esame, previo un tirocinio di ben otto anni presso una spezieria, prima di assegnare il titolo di Maestro in Farmacia.
Infine lo Speziale diveniva tale solo dopo aver recitato il Capitolare degli Speziali che dal 1258, forse il più vecchio al mondo, costituisce per i farmacisti l’equivalente del giuramento di Ippocrate e che, ancora sorprendentemente attuale, così inizia: “ Giuro davanti ai Santi Vangeli di Dio che preparerò e farò in modo che siano preparati tutti i medicamenti, elettuari e sciroppi, sia gli unguenti che gli empiastri e tutte le medicine onestamente e senza frode con le usuali spezie e se non potrò trovarne alcune, invece di quelle metterò solo altre spezie... neppure venderò, né permetterò sia venduta alcuna cosa se non col suo nome, e inoltre non stringerò accordi o farò società con nessun medico al fine di ingannare i compratori, naturalmente nelle medicine, negli elettuari, nelle polveri e negli sciroppi... e così pure curerò secondo legge e con discrezione tutti gli ammalati e i feriti e gli affetti da altre malattie che avrò incominciato a curare e li consiglierò secondo la loro infermità e non prolungherò con la frode la loro malattia... e così pure non somministrerò né permetterò venga somministrata né consiglierò ad alcuno di somministrare qualsivoglia medicina velenosa o abortiva...”
I titoli rilasciati nelle terre della Serenissima erano così ambiti che, per conseguirli, accorrevano a Venezia studenti da mezza Europa. A quest’ultimi, la pragmatica Repubblica Serenissima faceva pagare una cospicua tassa maggiorata. Nel tempo, gli Speziali di Venezia accumularono tanta benemerenza e fama ‒ acquisite anche all’estero nell’ideare e allestire medicamenti ‒ che nel 1706 la loro fu definita dal Consiglio dei Dieci (uno dei massimi organi di governo) “ Nobile Arte” e come somma ricompensa veniva concesso, a chi la esercitava, il diritto di sposare una nobile.
Un non disprezzabile incentivo, a prescindere dall’aspetto e dall’indole della futura sposa! Per comprendere meglio il livello di grado sociale ed economico raggiunto dagli speziali veneziani, basti sapere che essi consentivano a tutti i loro clienti, a esclusione dei poveri che non pagavano nulla, il pagamento dilazionato dei farmaci dispensati, cioè un terzo alla consegna e il resto ad avvenuta guarigione del malato. Il che può voler dire delle due cose l’una: o lo speziale riponeva un’estrema fiducia nell’efficacia delle medicine da lui preparate, o il prezzo dei farmaci era così elevato che ci si poteva permettere anche la prematura e infruttuosa dipartita del cliente debitore.
Alvise aveva sempre anelato al prestigio che si stava creando intorno agli speziali e ai privilegi conseguenti; non per sé ‒ non se ne sentiva degno ‒ ma per il suo giovine figlio. E si adoperò sino allo stremo perché questi venisse accettato come apprendista presso la rinomata spezieria Alla Testa d’Oro sul Ponte di Rialto. Tutto ciò che guadagnava Alvise lo consegnava nelle mani della moglie Antonia, sparagnina e attenta ad amministrare il denaro con oculatezza e a non dissipare neanche un bagattin, moneta allora appena sufficiente a comperare beni di uso comune come il pane, da cui il termine “ bagatella”.
E quando le monete avevano raggiunto un certo numero, Antonia le cambiava in pezzi di maggior valore, i bessi di rame, che a loro volta venivano convertiti in soldi, poi in gazzetee infine in lire d’argento che erano ciascuna l’equivalente di ben duecentoquaranta bagattini. Quest’accurata e quasi ossessiva operazione di economia domestica, protrattasi negli anni, aveva prodotto un discreto patrimonio. All’insaputa dei suoi familiari, Antonia teneva tutte quelle monete in casa. Non sotto il proverbiale materasso, ma cucite astutamente e con perizia tra la fodera e il tessuto di un vecchio e liso tabarro che nascondeva tra gli stracci nella parte più dimenticata della soffitta.
La sua bravura di sarta, occupazione che intratteneva per incrementare il bilancio familiare, le fu di grande aiuto nel dissimulare alla perfezione il denaro meglio che non in una cassaforte. Qualche malalingua nel Sestriere diceva in giro che la Vecchia prestasse anche soldi a interesse e questo spiegherebbe la rapida crescita del suo capitale. A ogni modo qui narreremo, più che l’origine, la destinazione del denaro tanto caparbiamente accumulato dalla vecchia Antonia.
E della bizzarria della sorte che, per il tramite dell’ingenua generosità del figliolo Vincenzo, stava per giocarle un ennesimo brutto scherzo. Dopo la morte del padre,Vincenzo aveva intrapreso gli studi e l’apprendistato per diventare speziale, più per onorare la memoria e i desideri in vita del genitore, che per reale vocazione. Essendo di buona indole, altruista e volonteroso, si era tuttavia guadagnato la benevolenza e la simpatia del suo maestro e datore di lavoro.
Una fredda mattina invernale ‒ la madre era uscita per andare a messa nella parrocchia vicina ‒ Vincenzo stava ancora sotto le coltri calde a godersi il suo meritato giorno di riposo, quando un concitato scampanio al portone lo ridestò bruscamente. Sportosi ancora insonnolito dal balcone sovrastante l’ingresso di casa, il ragazzo vide un vecchio mendicante male in arnese che, tremante per il freddo, gli chiedeva la carità. Mosso a compassione per lo sfortunato cristiano, ma non disponendo di denari,Vincenzo si ricordò di un vecchio tabarro appartenuto al padre che aveva visto una volta in soffitta e, sicuro che non sarebbe servito a nessuno in famiglia e di non aver bisogno del permesso della madre per un cappotto così stracciato, si risolse a farne dono al questuante.
Di lì a poco la madre fece ritorno. Salì in soffitta, ma quasi subito ne ridiscese, pallida e tremante. Con voce flebile Antonia chiese conto al figlio del cappotto scomparso e, alla conseguente risposta di questi, la Vecchia se ne uscì con un terribile gemito colmo d’angoscia. In italiano sintetizzeremmo così il suo dire, estrinsecando il rimprovero della genitrice nei confronti dello stolto rampollo per aver disperso il peculio e aver incalzato anzitempo la di lei dipartita. Ma per chi è più ferrato nell’ostica lingua veneta, riportiamo qui le sue esatte parole: “ Ti me gà sassinà! Ah, poareta mi, che desgrassià... i schei de na vita. Cossa ti gà fato, mona d’un fiolo!” Buono sì, ma non privo di una certa inventiva, Vincenzo non si perse d’animo e, confortata la madre che forse non tutto era perduto, indossò il suo cappotto più nuovo e uscì di casa.
Procuratosi da un suo amico tessitore un naspo di quelli che servono ad avvolgere le matasse di filato, si diresse verso Rialto. Giunto nei pressi del Ponte si sedette in un cantone e, fingendosi debole di mente, prese a cantilenare mentre rigirava tra le mani l’arcolaio, ammiccando e sorridendo ai passanti con l’occhio vacuo del minus habens. Oggi, nella nostra più sensibile società, si direbbe “ diversamente intelligente”. Passò l’intera giornata e, quando ormai sul far della sera credette vani i suoi sforzi, ecco comparire il mendicante con il prezioso cappotto.
Avvicinatolo, con un largo sorriso lo apostrofò: “ Fratello, non posso vedere un cristiano sopportare i rigori dell’inverno con un così misero tabarro. Accetta di scambiare il tuo vecchio con il mio, perché l’anima mia te ne sarà grata!” Naturalmente al poveraccio non sembrò vero di aver avuta, per ben due volte in una giornata, tanta fortuna. Ringraziò quello che credeva essere un pio veneziano un po’ tocco e se ne andò felice per la sua strada. E così pure Vincenzo che, restituito l’aspo all’amico, tornò trionfante a casa per comunicare all’angosciata madre che il tesoro era stato ricuperato. Tesoro di cui, come sappiamo,Vincenzo non avrebbe goduto.
Dopo la tragica scomparsa del ragazzo, alla Vecchia non era rimasto alcun motivo per continuare a vivere: con il figlio se ne era andata la sua stessa ragione di esistere e con lui anche la possibilità di onorare le ultime volontà del marito defunto. Fu sua cognata, madre di Lodovico che, un po’ per pietà nei confronti della Vecchia, ma soprattutto per favorire il proprio figlio, un giorno le propose un patto scellerato: occuparsi del nipote come fosse la sua vera madre.
Sul momento la Vecchia rifiutò, inorridita al pensiero di poter sostituire nel suo cuore il figlio morto con il nipote: era affezionata a Lodovico, ma il suo affetto per lui non era che un pallido simulacro a confronto con l’amore materno. I giorni, le settimane e i mesi passarono e nell’animo esacerbato della Vecchia l’istinto di conservazione e il desiderio mai sopito di ritrovare, dopo tanto dolore, il calore di una presenza viva fra quelle fredde stanze, la spinsero tuttavia al gran passo: avrebbe preso in casa Lodovico e lo avrebbe allevato, curato, istruito come avrebbe fatto, se la Provvidenza non glielo avesse portato via, con il suo vero figlio. E forse un giorno il dolore si sarebbe attenuato.
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" LA CONGIURA DELLO SPEZIALE" di Mauro Santomauro - Ed. Libro/Mania
Caro Lettore,
arrivederci al prossimo appuntamento letterario.