BIOGRAFIA
L'autore Tiziano Corso, vive in Trentino da oltre tre anni ma le sue origini sono Venete. E' nato in un paesino del "Cadore", nel Bellunese.
Ama la lettura, la scrittura, il cinema, la musica. Ama passeggiare e fare le cose semplici della vita. E' un insegnante di yoga.
DEDICA DELL'AUTORE
Dedicato a mia Mamma.
Come ogni anno sta tornando il Natale, come due anni fa quando, mentre in qualche famiglia si accendeva un nuovo presepe, tu ti spegnevi esalando l’ultimo respiro, salutando una vita che ti aveva dato poco e tolto molto, ma da quella vita è nata una stella. A presto Mamma …
PRESENTAZIONE
Caro Lettore,
Il libro, "Racconti sul comodino" è una raccolta di racconti ispirati a fatti realmente accaduti e di fantasia. Una lettura accattivante che cattura il lettore coinvolgendolo in un caleidoscopio di emozioni unite a colpi di scena improvvisi. L'autore vi lascerà con il fiato sospeso ed insieme a lui viaggerete in un susseguirsi di emozioni incontenibili. Potreste ridere, piangere e chissà magari anche arrabbiarvi.
Il finale con un'appendice dedicata alla vena poetica e filosofica dell'autore.
Buona lettura...
RACCONTI SUL COMODINO
Le scarpe nere
Paolo si trovava davanti all’ennesimo campanello al quale citofonare; il ritornello, per tutto il giorno, era stato sempre lo stesso: “Buongiorno, sono Paolo della G.E.A., le posso chiedere cinque minuti per mostrarle il nostro nuovo aspirapolvere?”. Inutile dire che, sin dalla mattina e per tutto il tempo, le porte chiuse in faccia e i “no” si erano sprecati, ma Paolo non disperava; sapeva che di lì a poco avrebbe visto Angela, una ragazza che stava frequentando da un paio di mesi e che gli aveva rapito il cuore. Per lei aveva abbandonato il lavoro di guardia giurata e, sempre per lei, si faceva oltre 200 km per andare a fare quello sporco lavoro di piazzista. Si alzava alle 5.30 del mattino e rincasava, dopo aver trascorso due ore con lei, verso le 23. Giusto il tempo per buttarsi sul letto e recuperare un po’ di forze.
Certamente, in quei mesi di cose ne erano accadute: dalla imprevista gravidanza di Angela (frutto di troppa superficialità) alla frenetica ricerca di una clinica dove ‘non’ far nascere quel figlio che Angela, avendo solo vent’anni, non si sentiva di gestire. Per quanto riguarda Paolo, pur non facendo salti di gioia, avrebbe anche accettato di diventare padre: aveva trentadue anni e sapeva prendersi le sue responsabilità.
Mentre pure all’ultimo campanello nessuno rispondeva (o non voleva rispondere) e il freddo della sera iniziava ad avvolgerlo in quello strano Autunno, il suo pensiero andò totalmente a lei, a quella ragazza dalla carnagione chiara, ai suoi capelli biondi e a quegli occhi verdi nei quali perdersi; poco contava se durante tutto il giorno non aveva venduto nulla. Era anche consapevole del fatto che Angela in quel periodo frequentasse ancora il suo ex ragazzo e pure un terzo conoscente, ma a lui non interessava; era convinto che l’affinità elettiva che li univa, l’attrazione e il suo amore verso di lei avrebbero avuto la meglio sugli altri due contendenti.
Erano giunte le 20; con trepidante attesa Paolo aspettava Angela nel solito piazzale per poter stare con lei per qualche ora. Angela, come arrivò, gli chiese: “Mi accompagni al supermercato che devo fare un po’ di spesa?” Lui le disse: “Volentieri”. Fu in quel frangente (mentre Angela si comprava una gonna) che Paolo vide un paio di scarpe nere ad un ottimo prezzo e, fra sè e sè, si disse: “Queste scarpe sono perfette per la mia nuova attività di rappresentante!”. Angela nel frattempo si comprò una gonna che le copriva a stento le ginocchia. Fu uscendo dal negozio che Angela, molto distrattamente, disse: “Che buffo quel simbolo che c’è sulle tue scarpe, pare un teschio.”; Paolo fece un sorriso di circostanza e poi le disse: “Dove ti porto questa sera?”; Angela, neppure troppo imbarazzata, rispose: “Ehm … io alle ventuno devo vedere Tommy”.
Paolo trasalì sul sedile di guida; fu come fosse stato investito da una doccia gelida. Cercò di replicare dicendole: “Ma come? Non stiamo un po’ assieme e ci beviamo una cioccolata calda?”. La risposta che gli giunse fu come una coltellata alla schiena: “No, perché adesso vado a cambiarmi e appena vedo Tommy andiamo in discoteca”. Paolo rimase basito, non aveva mai visto Angela così gelida, così cinica … Non c’era in lei una minima traccia di rammarico … Era completamente proiettata verso la serata tutta “lustrini e paillettes” che l’attendeva. A quel punto Paolo, per un meccanismo di difesa, non proferì parola; accompagnò sotto casa Angela e, senza nemmeno darle il tempo di dire ciao, le disse: “Scendi!”.
Come Angela mise i piedi fuori dall’auto, ingranò rabbiosamente la prima e con una sgommata ripartì. Nei giorni seguenti l’orgoglio di entrambi ebbe il sopravvento: nessuno dei due fece quel piccolo passo di riavvicinamento e Paolo, come spesso faceva in situazioni del genere, considerò Angela come una persona che era deceduta. Era il suo modo per far tacere il dolore che gli lacerava l’anima. Rincasando dopo ore girate a vagare nella notte, Paolo si accorse che sul sedile posteriore giacevano le scarpe nuove. Le guardò con un moto di disgusto, le prese, le portò in camera e, come segno simbolico, le mise sopra un armadio. Da quel giorno rimasero lì. Passarono le settimane, i mesi; Paolo chiaramente non si presentò più nemmeno al lavoro di piazzista; si chiuse in se stesso, confortato da quei pochi amici che aveva; questi amici gli consigliarono di farsi reintegrare come guardia giurata.
Paolo fece una chiamata al suo capo servizi che, negli anni, era diventato un po’ come quel padre che l’alcool gli aveva portato via quando era ancora un bimbetto. Dopo una breve conversazione venne riassunto, ma a condizione che offrisse disponibilità totale a fare anche quel servizio di portavalori che, per pigrizia, aveva sempre rifiutato. Paolo accettò di buon grado: fare il portavalori, oltre che distrarlo, gli avrebbe portato a fine mese quei trecento euro in più che facevano sempre comodo; certo, c’era un coefficiente di rischio maggiore, ma a trentadue anni aveva mantenuto ancora quell’incoscienza tipica dei vent’anni. Destino volle che una sera, mentre era all’interno del furgone portavalori, assieme ai due colleghi che componevano la “formazione” classica per quel tipo di servizio, quando mancavano poche ore alla fine del turno, su un tratto dell’autostrada si videro affiancare da una berlina blu con un lampeggiante acceso e cento metri più avanti videro stagliarsi un camion messo di traverso.
L’autista, un po’ preso dal panico, non trovò di meglio che arrestare il mezzo; Paolo con la radio chiamò subito la centrale per dare l’allarme. In pochi minuti però, si delineò una scena degna di un film: dalla berlina blu scesero quattro individui, volto coperto, kalashnikov e fucili a pompa a braccio. Senza troppi preamboli, disposti a cerchio, iniziarono a mitragliare il furgone blindato (che poi tanto blindato non era …); all’interno del veicolo iniziò l’inferno e botti terrificanti esplosero sulle lamiere con un fragore assordante. Attimi, secondi interminabili dopo i quali uno dei quattro si avvicinò al conducente intimandogli di scendere. L’autista, visto che il furgone non avrebbe retto ad una seconda gragnola di colpi ed anche per prendere tempo, scese con le mani ben in alto. Ad accoglierlo fu un pugno diretto che gli spaccò il naso; il malvivente, con forte accento est europeo, gli ordinò di aprire la cassaforte; l’autista fu costretto ad ubbidire. In pochi secondi i banditi fecero man bassa del bottino e si dileguarono sull’auto blu.
L’autista, (tale Federico Liotta, guardia giurata da oltre vent’anni) ripresosi dallo shock, rientrò nel furgone dove erano rimasti i due colleghi. La guardia seduta sul sedile posteriore era sotto shock per via dei botti che lo avevano letteralmente assordato; Paolo invece, seduto sul sedile di fianco, pareva tranquillo. Federico gli diede un colpetto sulla spalla dicendogli: “Coraggio il peggio è passato” Ma da Paolo non ottenne risposta. Solo una flebile esalazione e un rantolo. Un proiettile era penetrato nell’abitacolo attraverso le fenditure dell’aerazione ed era finito proprio nel cuore di Paolo. Il giorno del funerale toccò alla anziana madre di Paolo il compito di scegliere i vestiti con i quali il figlio avrebbe affrontato l’ultimo viaggio terreno.
Dopo aver scelto con cura un completo scuro si rese conto che non c’erano un paio di scarpe adeguate e abbastanza nuove da far indossare al figlio defunto. Fu a quel punto che il suo sguardo si posò sulla scatola che per mesi era rimasta intonsa su un armadio. Lorenza, la madre di Paolo, prese una sedia, salì sull’armadio, aprì la scatola e con relativa sorpresa vide quelle scarpe nuove di zecca. Per un attimo fece una riflessione dettata anche dal suo vissuto, in quanto figlia di un’adolescenza vissuta a cavallo della seconda guerra mondiale dove le scarpe erano un bene prezioso. Il pensiero che le passò, per un breve attimo, fu questo: “Che peccato … un paio di scarpe nuove da usare per un solo giorno!” Ma fu un attimo, il dolore per la perdita del figlio prese il sopravvento; con le lacrime agli occhi le consegnò all’addetto delle pompe funebri in modo tale che potesse calzargliele.
Angela apprese la tragica notizia dai telegiornali e, nonostante non si sentissero più da mesi, decise di partecipare al funerale. Alla cerimonia erano presenti tutti i colleghi della regione, venuti per dare l’estremo saluto a chi purtroppo non c’era più. Angela si fece coraggio per andare a salutare per l’ultima volta Paolo prima che il feretro venisse sigillato. Per un attimo ebbe un momento di mancamento quando, fra le altre cose, vide che Paolo indossava proprio le scarpe nere con quel simbolo a forma di teschio che, in un flash, ricordò avere comprato quel fatidico giorno nel quale le loro strade si erano separate … adesso e in futuro, senza possibilità di ripensamenti … per sempre.
* * *
Cuore di Nonna
Il sole stava tramontando all’orizzonte; le giornate erano ormai molto corte in quel tardo pomeriggio di fine Ottobre in cui le folate di aria piuttosto fresca tentavano prepotentemente di soppiantare il calore estivo. Sonia era in un angolo della piazza, ma non era un angolo qualunque: era il suo angolo, una minuscola frazione di centro città che si era scelta per essere in mezzo alla gente ma, contemporaneamente, un luogo dove passare inosservata agli occhi dei vigili locali. Non che facesse qualcosa di male, tutt’altro, ma da una decina di mesi si appostava lì per svolgere il suo lavoro: leggere la mano ai passanti.
L’arte della chiromanzia le era stata insegnata dalla nonna materna quando era bambina. Sonia faceva parte di una comunità nomade che si spostava per l’Italia e il centro Europa. Si trovavano in Toscana da quasi un anno e Sonia, ormai diciassettenne, era stata mandata dai genitori a lavorare già da molto tempo. Fino ad allora con i vigili non aveva avuto particolari problemi, anche perché sapeva perfettamente che quando li vedeva avvicinarsi, per una sorta di tacito accordo, era prudente mimetizzarsi. D’altronde anche gli agenti che normalmente pattugliavano la zona avevano iniziato a prendere in simpatia quella giovane rom dai lineamenti tipicamente slavi: gli zigomi alti, gli occhi dal taglio orientaleggiante e di un verde che a volte, come il mare, sfociava nell’azzurro; la carnagione chiara dava risalto allo sguardo intenso ed ai capelli corvini leggermente arruffati che le accarezzavano le spalle; la corporatura esile … suscitava troppa tenerezza per essere in qualsiasi modo sgridata o cacciata perché svolgeva un’attività che, alla fine dei conti, aggiungeva un tocco di folklore in più alla piazza cittadina.
Il vento freddo della sera stava cominciando a fenderle la pelle delicata e la larga sottana che giungeva fino alle caviglie, accompagnata da una camiciola di seta, non erano sufficienti a proteggerla da quelle sferzate di aria gelida. Sonia si era fermata un po’ più del solito per osservare il sole calare all’orizzonte e lo scenario poeticamente struggente aveva fatto sì che dalla sua memoria riaffiorassero quelle immagini che la stavano accompagnando da troppe settimane: erano le immagini della cara nonna morente … quella nonna che si era presa cura di lei, al pari di una madre, fin da quando era piccolina.
Era stata proprio lei ad iniziarla alle cosiddette arti magiche; le aveva insegnato a leggere la mano, ad orientarsi guardando le stelle e le raccontava tutte quelle belle leggende legate alle tradizioni popolari della loro etnia. Questi ricordi gioiosi venivano spesso soppiantati da quelli strazianti delle ultime ore di vita della nonna che, dal suo letto di morte in ospedale (e probabilmente in preda al delirio datole dalla morfina), con un rantolante filo di voce le diceva: “Sonia, piccola mia, ti voglio tanto bene … ricorda una cosa: quando le lacrime e il vento solcheranno il tuo viso vai sempre verso nord, non fermarti mai …”.
Con tutta probabilità era solo il vaneggiamento di un’anima morente, ma ogni volta che si ritrovava a pensare alle sue manine ossute che stringevano quelle nodose e fredde della nonna (quasi volesse trattenerla ed impedire alla morte di portarsela via) e a quella donna che tanto amava e che l’ aveva tanto amata, sentiva un brivido scorrerle lungo la schiena. Per esorcizzare queste riflessioni cercava di concentrarsi sulle persone e, quando queste la evitavano, si cullava nel ricordo delle antiche fiabe o leggende che le raccontava la nonna sulle origini del suo popolo. Le diceva sempre: “Devi sapere, che un tempo anche noi avevamo una patria come tutte le altre popolazioni, però avevamo una caratteristica: il nostro gruppo etnico viveva nelle viscere del sottosuolo, nella cosiddetta terra cava, nel mondo di Agharti la cui capitale è Shambhalla ed è occupata e dominata da esseri sovrannaturali che hanno lo scopo di osservare l’umanità e, in certi casi, intervenire affinché il male non possa sopraffare il bene.
Il nostro popolo, purtroppo, commise un grave peccato e per tale colpa venimmo condannati a girovagare per il mondo senza avere una nazione nostra e nell’eterna ricerca di uno degli ingressi segreti che sono celati ai più”. Sonia si rese improvvisamente conto che si stava attardando e che il buio stava velocemente sostituendo le ombre lunghe del pomeriggio; le luci dei lampioni, per effetto crepuscolare, si stavano accendendo ad una ad una e quindi si avviò per far ritorno a casa, o per meglio dire, alla roulotte che era stata la sua abitazione da sempre. Strada facendo si sentì pervadere dalla malinconia (cosa che le capitava di frequente), così indirizzò i suoi pensieri verso i luoghi ameni dell’anima ed iniziò a sognare ad occhi aperti.
Si vedeva condurre una vita simile a quella di qualsiasi altra ragazza europea: uscire con gli amici, frequentare l’università, avere un fidanzato … anzi, no, un marito! Sì, un marito con il quale essere felice in una casa dalle fondamenta solide. In quegli ultimi anni si era stancata di girare di città in città e avrebbe voluto avere una dimora fissa, magari un lavoro come commessa … in fin dei conti nulla e nessuno le poteva vietare, se non altro, di sognare. Ma la realtà la conosceva benissimo: le sue origini erano nomadi e il suo matrimonio già combinato con un altro rom.
Un rumore improvviso alle sue spalle la riportò bruscamente alla realtà. Si girò di scatto e vide due brutti ceffi che la seguivano. Accelerò il passo, ma i due uomini continuavano a pedinarla; si mantenevano a debita distanza e subito Sonia realizzò il motivo del loro atteggiamento … Era ancora nel centro abitato e, se avesse urlato, sicuramente qualcuno l’avrebbe sentita, ma chi l’avrebbe aiutata? Il problema si faceva, passo dopo passo, sempre più pressante. Era ormai in periferia e, per raggiungere il suo accampamento, doveva percorrere due chilometri di strada sterrata sulla quale l’illuminazione non era ancora giunta. Si fermò un momento per domandarsi cosa fare mentre una sensazione di panico si stava impossessando di tutto il suo essere.
Non ci fu tempo materiale per riflettere freddamente: i due erano sempre più vicini e l’unica possibilità che le venne in mente in quell’istante (dettata più dall’istinto che dalla ragione) era quella di scappare; era agile e leggera mentre, a giudicare dalle sagome, quei balordi dovevano essere piuttosto corpulenti e pesanti. Cominciò quindi a correre senza pensarci un attimo di più; in definitiva per lei un paio di chilometri non erano poi tanti: ne percorreva almeno il doppio tutti i giorni e in gran velocità per essere la prima a salutare il sole levante, per vederlo fare timidamente capolino da Est ed infine sorgere e fiammeggiare maestosamente per scaldarla e infonderle fiducia ed energia.
Spesso tentava di contare i chilometri. Mese dopo mese, era riuscita a calcolare che copriva un chilometro in otto minuti circa. Certo, in quel frangente avrebbe dovuto buttare il cuore oltre l’ostacolo e correre a perdifiato. Ormai, senza quasi accorgersene, era al limite delle sue capacità e la sottana lunga le impediva di correre come sapeva. Anche quegli energumeni avevano cominciato a correre; per un chilometro buono aveva avuto la sensazione di essere riuscita a seminarli ma adesso aveva il fiatone, sentiva che le forze le venivano meno, sentiva rallentare la sua corsa e, soprattutto, sentiva i passi dei due sempre più vicini.
Fu in quel momento topico che, visto anche il buio incipiente, inciampò in un sasso; mentre stava cadendo le passarono mille immagini per la mente e le parole della nonna: “Vai sempre a Nord”. Si rese conto che sulle sue gote, oltre al sudore, c’erano anche delle lacrime che avevano preso a scendere copiose per la disperazione, per la frustrazione, per la rabbia. Mentre rovinava su un fianco, finì per scivolare lungo la scarpata che cingeva il sentiero. Ormai aveva perso il controllo e continuò a ruzzolare per una decina di metri. Con la coda dell’occhio riuscì a vedere i due malintenzionati sul ciglio del viottolo che si apprestavano a scendere con le dovute cautele. Il pendio era molto sconnesso: impensabile buttarcisi correndo!
Fu in quel mentre che si accorse che fra il fogliame c’era un anfratto, una specie di piccola caverna. Seppur dolorante e con una caviglia slogata che le impediva di muoversi agevolmente, riuscì a rimettersi in piedi e pensò di nascondersi in quella spelonca. Fu allora che vide un bagliore verdognolo provenire dal fondo della grotta; appellandosi alle sue ultime forze si direzionò verso di esso. Era una luce particolare che dava una certa luminosità al fondo dell’ambiente. Fece una decina di metri e, con suo immenso stupore, vide che la grotta presentava un’apertura su un cunicolo piuttosto angusto dall’ingresso accuratamente occultato. Proseguì guidata da quella strana luminescenza.
I due inseguitori (che nel frattempo erano arrivati ai piedi della scarpata) videro solamente un anfratto nel quale si avventurarono per raggiungere il fondo della grotta ma, dopo una decina di metri, trovarono solo sterile e nuda roccia, della ragazzina non vi era più traccia! Perlustrarono in lungo e in largo il perimetro del piccolo vano ma la loro preda sembrava essersi dissolta nel nulla. Uno dei due disse: “E vabbè, la zingarella deve essere sgusciata su qualche altro sentiero … Torniamo al bar a berci una birra, tanto domani la ritroviamo in piazza e le facciamo la festa!”. “Sì,dopo tutta questa fatica ne ho proprio bisogno!”. ghignò l’altro. Detto questo s’inerpicarono verso la salita per tornare sul sentiero ma, arrivati a metà pendio, una piccola frana di sassi li investì … Intanto Sonia aveva proseguito il suo cammino lungo quella strana galleria che pareva vivesse e brillasse di luce propria; non riusciva a capacitarsi dell’origine di quella luminescenza che sembrava volerle indicare la strada.
Entrò nelle viscere della montagna e vi rimase per più di un quarto d’ora. Ad un certo punto, più che vedere, percepì la presenza di qualcuno di fronte a sé. Non ancora abituata a quella luce flebile non riusciva a distinguere bene chi o cosa fosse. Fatto sta che, per l’estenuante corsa, la caviglia dolorante e lo spavento, le mancarono i sensi. Quando si risvegliò era adagiata su una coperta morbida. I suoi grandi occhi cerulei misero lentamente a fuoco le figure di un ragazzo e una ragazza che le parvero poco più grandi di lei. Rimase stupefatta dalla loro bellezza così simile alla sua: pelle chiara, corporatura esile e occhi di un blu così intenso che il solo guardarli le dava una sensazione di pace e serenità.
I due giovani, come videro che Sonia stava riprendendo conoscenza, le si avvicinarono per parlarle: “Ciao Sonia, io mi chiamo Nashtar e lei è mia sorella Eshmira, siamo gli abitanti di questa terra; benvenuta fra di noi”. Sonia rimase incredula e per un attimo che parve eterno non riuscì a capacitarsi di quanto stesse avvenendo. Mille pensieri le si accavallarono in testa: dove erano finiti i due bruti? Che nomi strani avevano quei due ragazzi … Chi sa chi erano e da dove venivano … Ricordò allora le parole della nonna: “Vai a Nord quando il vento righerà il tuo viso” e ancora: “Il nostro popolo viveva nel sottosuolo...” In quell’istante riuscì a collocare l’ultima tessera del puzzle, fece per proferire parola ma i due ragazzi la anticiparono dicendole: “Certo, Sonia! E’proprio come stai pensando, tua nonna ti ha sempre detto la verità ed è stata lei a farti inciampare su quel sasso; noi ti stavamo aspettando … non preoccuparti per i tuoi inseguitori, non sono e non saranno mai più una minaccia per te!
Quello che è successo faceva parte di un disegno che doveva ricondurti nella tua vera casa: bentornata ad Agharti!”. Il giorno successivo l’autista del camion delle immondizie fece il solito giro per raccogliere i rifiuti dai cestini disseminati fra i vari sentieri, ma una piccola frana aveva divorato parte della carreggiata obbligandolo ad arrestarsi. Conducente ed operatore addetto alla raccolta si fermarono per verificare l’entità del danno e valutare la possibilità di proseguire. Nell’osservare lo scenario videro due sagome parzialmente coperte dai detriti prodotti dallo scivolamento del terreno pietroso. Si avvicinarono ai due corpi inerti e, quando furono sufficientemente vicini, sentirono il sangue gelarsi nelle vene; un tuffo al cuore e un groppo alla gola quasi impediva loro di respirare: lo scempio che era stato compiuto sulle carni era raccapricciante … i cinghiali o i cani randagi della zona avevano fatto sicuramente un’ottima colazione!
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" RACCONTI SUL COMODINO ( Versione 2.0 )" di Tiziano Corso - Editore Lulu.com -
Caro Lettore
Arrivederci al prossimo appuntamento letterario.