BIOGRAFIA AUTORE
Fabio Pinna nasce a Cagliari nel 1983. Fin da giovane amante della letteratura classica e contemporanea, ed in particolar modo della poesia, nazionale ed internazionale, inizia a conservare e raccogliere i suoi lavori. Esordisce nel 2004 con una raccolta di poesie dal titolo "Un sogno diventa realtà" presentato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Villasimius (Ca) nel centro culturale dello stesso, il 17 Aprile del 2004 (Edizioni Montedit). Successivamente Fabio Pinna collabora con i suoi racconti alla stesura di Murales raccolta di racconti umoristici e spensierati, pubblicato nell’Agosto 2005 (Edizioni Montedit). Il 28 Aprile 2006 presenta a Cagliari, presso la sala ‘Cosseddu’ dell’ERSU il romanzo Senza sottile dispiacere (Edizioni La Riflessione).
È segnalato meritevole di pubblicare nell’antologia dell’XI Edizione del Premio Internazionale di Poesia “Il Giro d’Italia delle Poesie in cornice”, finalista con una raccolta di poesie nel Premio “J.Prevert 2005″. È premiata l’opera “Dentro Lei” in ambito del XIV “Premio Letterario Interlingue Montagne D’Argento” con la pubblicazione sul volume ‘Il Primo Amore’ a cura della Keltia Editrice (distribuzione nazionale 2006). È finalista nel premio letterario “Il club degli autori 2005-2006″ e le sue opere”Affiori“, “Dimenticando tutto il resto“, “Piccola mia” sono presenti nell’antologia del premio.
È sesto classificato e segnalato con diploma di elogio al XXI premio nazionale di letteratura “Prof. Francesco Florio” sezione poesia con “La nuova casa del sole”. Nel 2010 stampa in tiratura limitata 40 volte amore, una raccolta di poesie a tema con una selezione tra i migliori componimenti tra cui diversi finalisti a premi letterari.
Fabio Pinna scopre lo strumento blog agli inizi del 2000 e dopo aver scritto ovunque e passato notti insonni nel 2012 decide di fondare Leggere a Colori nell´intento di diffondere cultura, di scrivere e stabilire un contatto con i suoi lettori e inseguire un sogno. I suoi libri in formato digitale sono disponibili sui piú importanti store online, Amazon, Google Play, iBooks Store. Scrive costantemente e in progetto ci sono altri libri, altre collaborazioni, interviste e molto altro.
PRESENTAZIONE
Isabel e Alfred in una Fortrose senza tempo. Nonostante le difficoltà la fuga da casa, i problemi d’amore, la droga e un figlio inaspettato Isabel riuscirà a imparare a “amar la vita intera così com’è, confezione unica, alla stessa maniera.
Senza sottile dispiacere. Il titolo Senza sottile dispiacere esprime il concetto chiave di questa storia ambientata negli anni 1975-81. E’ una scoperta e insieme una scelta obbligata per il bene, l’ancoraggio per non esser risucchiati via dal sistema. Una visione strettamente legata al modo di percepire due componenti fondamentali della realtà umana: la felicità e l’amore.
I protagonisti del romanzo, Isabel e Alfred, avranno modo di scoprire che essa “non è altro che gioco di relatività e che spesso non occorre salire per trovarla, né scendere, ma semplicemente voltarsi. Un punto di vista, una preponderanza di aspetti che valutiamo positivi rispetto a quelli che giudichiamo negativi”. E proprio perché è un punto di vista non dipende dalle situazioni della vita ma da come esse sono affrontate.
Quando si è felici? Quando si lascia l’amore libero di fare il suo corso. L’amore per la vita, l’amore per le persone.
Nonostante le difficoltà la fuga da casa, i problemi d’amore, la droga e un figlio inaspettato Isabel riuscirà a imparare a “amar la vita intera così com’è, confezione unica, alla stessa maniera. Essere felici per ciò che si ha anziché infelici per ciò che si avrebbe voluto.
Mettendo insieme questi due concetti si ha una crescita interiore derivata dalla consapevolezza che si può affrontare qualsiasi cosa non senza sentire i dispiaceri, ma senza viverli nella loro interezza. Senza dar loro l’opportunità di rovinare il buono.
Ecco la filosofia della storia di Fabio Pinna dai repentini cambi di scena: vivere senza sottile dispiacere dipende da noi, dipenda da dove sono affondate le radici del nostro amore e felicità, e merita di essere fatto.
Buona Lettura...
SENZA SOTTILE DISPIACERE
Dedicato
A quelli che credono alle storie. Come me.
A quelli che credono che le storie siano per i bambini. Come me.
E conservano nella curiosità spensieratezza sincerità e comunicazione lo spirito dell’infanzia.
* * *
L’imbocco alla strada
Anche quel pomeriggio il cielo sbuffava. Le nuvole sembravano aver rubato le tonalità di grigio dalla tavolozza di un pittore malinconico, sparse qui e là ai quattro angoli di un cielo cupo. Il vento sibilava a sillabe, portando con sé le sue punte di solitudine. L’aria rinfrescava. Gli olmi che frusciavan le lor foglie impazzite al vento, sembrava sapessero. Come la voce impercettibile della vita, che aveva il coraggio di sussurrarlo: —arriva l’inverno!
* * *
Sogni e valigie
Anche quel pomeriggio un’appena ragazza rimirava nel fuori, traverso i cristalli della finestra. Cristallizzava. Il paesaggio era sempre quello che aveva visto da bambina ogni benedetto giorno di Dio, il prato, il vecchio castagno protetto dal vento, i salici cresciuti tanto e così bene vicino al piccolo specchio d’acqua. Il ciottolato di pietra che portava chissà dove. I vasi dei gerani frangivento che alla fine del piccolo portico sembravano stringersi in un abbraccio per non volar via.
Tutto sembrava uguale. Niente era uguale, per Isabel. Il sangue fluiva lento in lei, senza traffico, mentre sembrava sfuggirgli via la vita, come biglia in discesa. Un paio d’occhi per spezzare il vuoto e provare a misurare la lontananza di un bene, che forse, era solo un galeotto detenuto di carcere cuore. Arrivava l’inverno. Giungeva il tempo di diventar donna. La vita con le sue sfide inattese, scuoteva il suo esile corpicino in un turbine d’incertezze, di perché senza risposta.
Un’aria nuova, misteriosa. Al suo solito stato gassoso gassato frizzoso frizzato. Fuori cominciava a piovere.
—Ti piace la zuppa? chiedeva la signora Margaret.
—Sì— disse il signor O’ Connor.
—Com’è andato il lavoro?
—Come il solito—, e rivolgendosi alla figlia chiese:
— hai svolto i compiti per casa?
—Sì.
—Ricordati che quest’anno hai l’esame, e dovrai passare il test d’ammissione al College di Londra. Non devi sbagliare.
—Sì.
Finiva abitualmente a metà del primo piatto il colloquio della famiglia O’ Connor. La signora Margaret sistematicamente ritirava i piatti del primo e serviva il secondo. Una sera come le altre. Fotocopiata. Di lì a poco si sarebbero ritirati tutti, ognuno nella propria stanza e a modo loro avrebbero cercato di fuggire dai venti e dalle piogge dei grigiori quotidiani. Il signor O’ Connor fumando la pipa davanti al televisore borbottante, la sua consorte studiando il libro di cucina per la ricetta del domani.
Sarebbe tornato puro e semplice silenzio. Consumarono ognun per sé la cena. Isabel sentì romantiche le gocce di pioggia che bagnavano il bosco attorno alla casa, uscì fuori sul terrazzo dei desideri, ne udì il rumore più intenso e le sentì precipitare sulle dita, scivolare per le braccia. Tornavano i suoi pensieri. Mark era lontano. Il cielo forse si abbandonava in pianto anche per lui. Ma lei doveva essere forte, sì doveva. Dio, non poteva disperarsi così. Se avesse saputo di lei, di quello che stava succedendo, di come soffriva, di certo avrebbe fatto qualche pazzia per tornare. E non doveva, ora.
—Cara, torna dentro o prenderai del freddo—, lamentava Margaret alzatasi per spegnere le luci del portico.
—Ancora un minuto.
—D’accordo ma assicurati di esser ben coperta. Buonanotte.
—Notte.
La bianca glassa spettrale di stelle, coperta da una fitta trama di nubi non la vide, mentre scioglieva le candide e calde gocce di paura, sue piccole dosi di acqua dagli occhi, mentre tutto intorno a lei era pioggia e anonima Inghilterra. Scavava e si logorava dietro la sfida di un’astratta caccia al tesoro, mentale e metafisica Isabel, cercando i buoni motivi per asciugar via tutto, pur d’essere contenta. Lei, che non avrebbe mai voluto proseguire gli studi al college e buttarsi sulle lingue com’esigeva il padre, lei che non aveva notizie dal suo cucciolotto da mesi, lei sola, a contendere contro la forza centrifuga del destino che l’avrebbe trascinata lontano, lontano da casa.
La sveglia guizzò alle sette in punto, più in punto del solito? La scuola ormai era finita, ma per i trentadue ragazzi d’esame a FortRose erano gli ultimi preziosi giorni di preparazione. Isabel ridimensionò la sveglia. Una colazione di tutto punto in sala da pranzo, abbioccata sul tavolo, aspettava solo lei. Quel giorno passò veloce tra latino, pillole prescritte di matematica e scienze della terra. Poi sera. Toc, toc. Qualcuno importunava la sua porta.
—Tesoro hai bisogno di qualcosa? Come vanno gli studi?
Era Margaret. Il suo custode.
—Non mi occorre nulla, grazie.
Va abbastanza bene. Ho quasi finito.
—Bene, io e tuo padre ci aspettiamo molto da te e siamo sicuri che non ci deluderai.
E quando mai.
—Quando hai finito scendi. La cena è pronta.
—Stasera non ceno, mi sento molto stanca.
Mini pausa riflessione.
—Come vuoi, ma solo per oggi. Ti voglio in forze per dopodomani!
—Non stare in pensiero per me
e con lieve disappunto aggiunse: —Ora scusami ma vorrei finire…
—Ma certo. Allora a domani piccola mia.
Slam. Il suo piccolo mondo si richiudeva, la porta tornava in pace e tornava barriera.
La radio trasmetteva in Modulazione di Frequenza 'Bohemian Rapsody' un nuovo successo da hit parade. Anche la musica sembrava cambiata. “No no no no no no no mama mia, mama mia, mama mia let me go”. Parole sante. Era proprio uno strano 1975. Gran progresso, folle impregnate di rock. Poi crisi del petrolio. Il televisore entrava nelle case, il gruppo Ant Farme ne fracassava cataste per protesta alla cultura. Isabel lasciò a metà le riflessioni, le chiuse insieme a quaderni fascicoli fogli, comprimendole nei loro quadretti di cellulosa, e si ricordò solo che quello era uno strano 1975.
La valigia si ricolmò di fretta. Bastavano poche cose per lasciarsi dietro, “a domani piccola mia”, quella realtà artificiale. Mezz’ora, una stradetta bianca, più un passaggio sconosciuto, più la via del mercato, più una piazza, la separavano da una vita scaduta. E l’angolo di divergenza che ingrandiva d’ampiezza.
—...
—Si può sapere chi è a quest’ora?
—...
—...
Non aspettava scocciatori. Si rigirò nel letto e fece finta di continuare a dormire. Continuavano a bussare. Attraverso la porta aperta della sua stanza, lo notò in un secondo momento, si scorgeva sull’ingresso di casa, una minuta figura di un’appena ragazza in penombra da lampione.
—Arrivo, arrivo. Un attimo!
—Ho bisogno di parlare con qualcuno, Alfred
—, pigolò la ragazza ansimando. Il viso era stanco. Dalla bocca, nuvolette di vapore in aria fredda.
—Sì, ma certo, entra subito.
Davanti ad una stufa a legna e al fianco di un amico, il gran baraccone da show detto volgarmente mondo sembrava un attimino più accogliente. Un briciolo meno falso d’autore.
—Ho lasciato casa.
—Cosa? In che senso?
—Passerò il resto della mia vita dove mi porteranno questi -indicando i piedi-, ma non lì ci puoi giurare.
—Perché? Ora calmati e raccontami cosa è successo.
—Niente. Niente di niente. Sono stanca. Di essere un’ombra in casa mia, di mangiare, vestire, dire e fare e apparire per volontà e desiderio di Mister e Missis O’ Connor. Essere il coniglio alternato in gabbia e cilindro, di due improvvisati illusionisti. I suoi disastrati genitori in parole povere, due veri adamantini addobbati a festa tutt’il dì.
—Ti rendi conto che mio padre vuol farmi studiare lingue perché lavori come interprete per i suoi affari all’estero? Perché così espande il suo mercato... “sono più soldi in casa, cara”.
—Non provano neanche ad interessarsi di quello che potrebbe piacere a me. Come sai, hanno rifiutato il mio Mark. E poiché lavorava come operaio in una ditta di cui mio padre è comproprietario, a quell’odioso è bastato trasferirlo in una sede del Texas offrendogli una migliore retribuzione. Mark non poté rifiutare, colpevole quella trappola di contratto che aveva firmato, il quale prevedeva un forte indennizzo in caso di ripensamento. Ci hanno umiliato Alfred, spezzandoci i cuori davanti a tutti. Ora fanno pressione perché sposi un ragazzo di buona famiglia che hanno scelto per me e che naturalmente sarà cortese e galante solo finché non mi avrà avuta.
—Finirò gli studi crescendo almeno due pargoletti che impareranno a dire prima di tutto ‘nonna’ e ‘nonno’, e non saranno affatto frutti dell’albero sentimento. Capisci ora? Non ce la faccio più.
—È incredibile. Perché non me ne hai mai parlato?
—Non volevo darti noie. Di preoccupazioni ne hai già per conto tuo.
—Questo è vero, ma avrei potuto parlare con i tuoi e...
—Pensi che non ci abbia provato? Ma quando sfioro l’argomento diventano davvero insopportabili!
—Che situazione! Cosa pensi di fare ora?
—Non so. Di sicuro smettere di ricevere i mazzi di fiori più costosi del Regno Unito dal candidato al mio corpo. Per questo son qui, da te.
Bisognava restare calmi, restare sul positivo.
—Oh, beh…Devi dedicarti al tuo esame ora. Troveremo una sistemazione qui a casa, dove potrai finire di prepararti. Stava accettando troppo? Era l’unico...l’unico a..
—Cosa penserà la gente, io e te insieme...
—Faremo mica pubblicità. E poi non son cose che li riguardano. Affronterai serena la verifica, dopodiché prenderai il tempo per organizzare il tuo futuro e naturalmente, potrai contare su quello che il tuo buon Alfred riuscirà a fare per te. Che dici?
—Ti ringrazio.
Avrebbe anche voluto dirgli qualcosa in più del fiume in piena in lei, non fosse stato per quegli argini innalzati alla più grande maniera, quella patina rafferma di gelo che le restava ancora sull’amaro inverno del cuore. Si risolse con un sorriso, aggiungendo: —sei sempre il mio amico migliore— e se lo avvicinò, almeno col pensiero.
Lui, cicerone di quell’escursione, le indicò una camera piuttosto piccola, dov’era un letto sempre pronto per ogni evenienza (le evenienze erano le sbronze collettive weekendiane), un armadio di noce stretto su cui era stato applicato un grande specchio, e un comò provvisto di piccola abatjour. Il tutto era discretamente illuminato, almeno nelle dieci ore di giorno, da una piccola finestra che si concedeva con lo sguardo alla strada del borgo antico.
Le posò la valigia sul pavimento. Click interruttore.
—Questo è il servizio.
Click di nuovo interruttore.
—Invece questa è la mia piccola cucina. Non ci mangiava da secoli.
—Da quella parte c’è la mia camera— puntando l’indice assonnato verso una lontana orbita.
—La casa non è una reggia, è un po’ umida, ma... sopravvivrai come faccio io. La casa non era una reggia, lui non era un re e lei era una regina. E quello era solo silenzio della notte.
—Se ti occorre qualcosa non rinunciare a dirmelo, d’accordo? Ora scusami, vado a riposare. Domattina mi sveglio presto. A domani.
—Sei stato fin troppo gentile. Buonanotte!
Si separò dal resto con una chiave. Alfred si portava ventidue anni, era alto e di costituzione snella. Di compagnia, ma non del tutto estraneo alla riservatezza. Assicurare che fosse bello sarebbe esagerare, affermare che fosse brutto sarebbe ingiustizia.
Lasciate che sia come la fantasia del lettore, tanto non sbaglia mai, preferisce immaginarlo. Si era trasferito da Edimburgo, città di quasi mezzo milione d’abitanti, alla piccola cittadina di FortRose in cerca di sana tranquillità. Aveva percorso in carrozza seconda classe posto finestrino i 200 chilometri divisori, attraversando i monti Grampiani della Scozia, e si era fermato alla Black Isle. FortRose gli aveva offerto ospitalità, un lavoro e il verde d’alta quota che tanto desiderava, dai tempi in cui viveva in appartamento con i suoi, in pieno centro città. Aveva conosciuto Isabel nel modo più banale del mondo. Amicizie in comune. Lei ragazza timida e riservata si era gradualmente avvicinata, insicura, a lui offrendogli un’amicizia sincera che col tempo era divenuta forte. Sincera. Leale. Con le ali. Lui sì, sapeva ascoltare, capire. Lei come pochi s’interessava alle difficoltà che il nostro Alfred aveva dovuto incontrare, dal trasferimento. Gli aveva anche trovato il lavoro.
Uscivano spesso la sera, insieme ai soliti amici per andare a bere qualcosa alla vecchia taverna, o per guardare il mare scorrere placido all’ingresso del porticciolo cercando, invano, di scorgere i suoi silenziosi abitanti in boccheggio. Parlavano del resto, poco di loro. Non s’eran mai resi conto di non conoscersi. Restava un proposito qualora ne sarebbe sorto il bisogno. E anche quando arriva poi lo si rimanda. Alfred non aveva mai avuto l’occasione di fare la conoscenza dei genitori d’Isabel. Chissà per quale motivo poi. Era tardi per abbiosciarsi in un risvegliato pensare. Preferì il sonno. Giustamente mi correggono: il sonno preferì portarselo via.
La sua giovane amica nella stanza attigua era ancora sul mondo degli svegli. Cercava di condensare, capire, digerire gli ultimi avvenimenti. Un visino dolce da guardare. Pelle bianco latticino, sempre profumata. Non era tanto alta. Le labbra sottili che amava curare, d’inverno in guerra con le screpolature, spiccavano su quel bianco. Un colorito colorato clorato al cloruro di sodio.
—L’aria Dio me la dai, per ora. Mi hai dato loro, e gli hai dato me, che me la tolgono. Gravi e seri saccheggiano le mie inezie del sereno. Un processo alla potestà genitoriale, in un’aula deserta e senza difensori.
—Cosa mi date? Era questa la domanda dell’accusa agli imputati.
—Parole in cui non rientro, il solito piatto zeppo di ragioni vecchie stramescolate per ringraziare. Ma sputate su quello pulito, di interessenza e compartecipazione da cui mi nutro.
Cosa date Carl, Margaret? Muri invalicabili e non sono scalatrice. Trincee di asprezza a una pacifista. Decreti e editti che hanno il senso d’assurdo politicante che si sente ragliare.
—Cosa mi date? L’affetto di un riccio, la stima del mio valore espresso in decimali, alla stregua del ricettatore navigato. La fiducia del vuoto a perdere. Il paragone, perché sono ancora sotto la media delle medie. I plausi, di quelli che vanno scritti col sangue per essere ricordarti nel tempo attraverso prelievo-dolore-cicatrice.
—Cosa mi date? La cartina stradale per non incontrarci mai. L’indifferenza, di cui assorbo l’urto. Sfide agli involucri infrangibili che abbiamo imparato ad essere. È il vostro turno. Gli imputati non si alzarono. Non dissero una parola. Non c’erano. Riprese l’accusa. Riformulò la stessa domanda, rivolgendosela a nome e per conto degli imputati, studiando per loro una fittizia linea di difesa, giurando di rispondere con tutta la verità, nient’altro che la verità.
—Cosa non vi do? Tutto quel che date a me, anche se è poco. Perché vi voglio bene. Vi voglio bene. Tre parole. Cancellò il bene. Restava vi voglio. Restava bugia. Cancellò il vi. Restava voglio bene. Restava da metterci un soggetto. Restava poco. Poteva bastare, come prima giornata di udienza. Il giudice chiuse disinteressato il fascicolo e batté quel curioso martelletto. Quando vien sera, anche il dispiacere perde i suoi significati pur di svanire. Avrebbe davvero la sua vita, preso una piega diversa? Così facilmente come i capelli con il fon? Sarebbe morta la figlia di papà perfettina mai nata, che veste firme, pizzo, raso, troppo e lungo? Pasteggiare con posate d’argento. O forse le intenzioni erano una gran illusione comparsa da quel loro cilindro, e avrebbe assaporato anche lei, come tanti ragazzi che si lascian trasportare dopotutto, la delusione di non saperli realizzare. Quelli che porta appresso, in valigia.
“Voi dite: Oggi o domani andremo in quella città e ci fermeremo un anno; faremo affari e guadagneremo molti soldi. Ascoltate: in realtà voi non sapete cosa accadrà domani, e come sarà la vostra vita. ” Quella valigia che porta appresso. Pensando questo socchiuse gli occhi, s’avvicinò le coperte al petto come fan i bambini. Bella era bella. Addormentata era addormentata. Mancava solo il bosco. Cominciò a sognarlo. A sognare. Questa volta per davvero. Really.
* * *
" SENZA SOTTILE DISPIACERE " di Fabio Pinna - Editrice La Riflessione -
Caro Lettore,
arrivederci al prossimo appuntamento letterario.