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" LE PORTE DELL' ETERNITA' " di Alberto De Stefano

Tra antichi misteri, duelli all'ultimo sangue e tradimenti si dipana una narrazione che vi terrà incollati dall'inizio alla fine. Perché il tempo sta per scadere e quella che è in gioco è la salvezza dell'umanità.

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BIOGRAFIA AUTORE

Libraio di professione, Alberto De Stefano è da sempre appassionato di fantastico, pratica scherma medievale e canta in un gruppo Power Metal. Dopo avere pubblicato i romanzi “L’ultimo eroe del Klaidmark” e “Il ritorno degli dei” è approdato presso Curcio Editore, con la pubblicazione dei due romanzi “La maschera e la spada” e “Ragnarok” facenti parte di una trilogia.

PRESENTAZIONE

Caro Lettore,

“Le porte dell'eternità”, nasce da un esperimento narrativo in un genere ancora inesplorato dall’autore. Si troveranno elementi risalenti ad antiche leggende Giapponesi, una connessione plausibile tra i vari siti megalitici del mondo, la Porta del Paradiso di Ghiberti e quella dell'Inferno di Rodin, Longino e il Graal.

Questi elementi affascinano talmente tanto l’autore da volerli agitare e mescolare, per farli bere al lettore in un cocktail di emozioni. A differenza delle sue ultime creazioni, "Le porte dell'eternità" è un romanzo dove il bene e il male sono ben definiti, a volte addirittura estremizzati.

E’ un libro per i lettori amanti del romanzo d'avventura e del fantathriller. Ed ora entriamo in questo mondo ancora inesplorato…

Buona lettura…

LE PORTE DELL'ETERNITA'

PROLOGO

Masamune e Muramasa

I fiori di pesco, rosa e bellissimi, venivano spazzati da leggere folate di vento sull’altura della verde collina. Alcuni petali si staccavano dai rami danzando nell’aria. Il caldo sole di maggio riempiva l’animo di tranquillità e pace. La primavera, nel pieno delle sue forze, mostrava la bellezza senza eguali della natura. Il tempo pareva essersi fermato nella provincia di Ise e le colline brulicavano di vita animale. Il fiume scorreva limpido verso valle, mentre alcune foglie ne ricoprivano la superficie. Neppure una nuvola oscurava il cielo. Nonostante la tranquillità apparente, diversi conflitti sconvolgevano il Giappone e le parti contendenti avevano commissionato a diversi fabbri la produzione di spade e armi. I due più grandi armaioli dell’isola avevano il compito di fabbricare le katana, le armi più ricercate in quel momento. Muramasa Sengu, originario di Ise, e Masamune Okazaki, della provincia di Sagami. Così bravi e rinomati da essere riveriti quasi come dei. Il loro inconfondibile stile li aveva resi rivali, tanto che quel giorno si trovavano sulla collina con la spada in pugno. A osservare la scena come testimone e giudice dell’incontro, venne chiamato un bonzo che doveva redigere un documento su tutto ciò che sarebbe accaduto quel giorno.

Finalmente i due armaioli, giunti alla resa dei conti, si sarebbero sfidati definendo una volta per tutte chi fra loro fosse il migliore. «Dunque, Okazaki, oggi scopriremo chi tra noi è davvero il più grande fabbro del Giappone» disse Muramasa con una strana luce negli occhi neri. Il suo avversario, più vecchio di qualche anno, con un lungo pizzetto e baffi neri rispose con un sorriso forzato. «Non ho mai preteso di essere migliore di nessun altro uomo, Sengu, né ho la presunzione di esserlo. Le mie spade servono semplicemente chi merita d’impugnarle». «Già! E solo samurai, giusto?» lo schernì l’altro. «Che male c’è nel far impugnare le proprie lame a chiunque sia in grado di brandirle? Hai paura che qualcuno si possa fare male? Hai il cuore troppo tenero!». «Le spade che costruisco non sono giocattoli e non hanno un’indole sanguinaria come le tue. La perfezione che ricerco nel forgiarle dovrebbe rispecchiare l’animo di chi le brandisce. Le mie lame non sono oggetti da impugnare alla leggera». Muramasa lo derise ancora: «Le katana che fabbrichiamo sono armi, Okazaki, armi! Sono fatte per tagliare e uccidere. Devono fendere la carne per far sì che gli uomini si ammazzino e che i regni nascano. Sono concepite per uccidere e spargere sangue, ecco a cosa servono».

L’altro scosse la testa. «Se la mia arte dovesse ridursi a questo smetterei immediatamente di creare le mie spade. No, Sengu, le mie katana servono per unire e mai fenderanno il corpo di innocenti. Dai pure le tue creazioni agli shogun! Tutti loro non faranno che spezzare il mondo con la loro brama di sangue». «Brama che le mie spade alimentano. Ma siamo qui per altri motivi, amico mio». «Sono impaziente di vedere quale delle nostre creazioni è la più tagliente. In fondo il monaco è qui per questo». «Come proponi dunque di risolvere questa stupida questione?». Masamune scosse il capo. «Sarà il bonzo a giudicare». Il monaco, che aveva seguito ogni parola del colloquio fra i due, si avvicinò in silenzio e li guardò entrambi negli occhi. Masamune sembrava calmo e disinteressato. La sua corporatura robusta gli conferiva un’aria bonaria. Tutto l’opposto di Muramasa, i cui lineamenti aquilini tradivano una pericolosa follia. «Prima di cominciare la sfida è necessario che diate un nome alle vostre spade, così che io possa descriverle e darne memoria ai posteri» asserì il monaco. «Juuchi Fuyu, Diecimila Inverni. Questo è il nome della mia creazione» comunicò Sengu. «Il nome della mia katana è Yawaraka-Te, Mano Delicata» rispose Okazaki. «Molto bene. Questa è la prova a cui sottoporremo le due lame per osservare quale fra esse sia la più tagliente. Appenderemo le spade al ramo di quell’albero di pesco, lasciando che la punta delle armi fenda l’acqua. Vedremo così cosa verrà tagliato e cosa no» spiegò il bonzo dal cranio calvo e dalla barba grigia.

I due fabbri recuperarono una corda e fissarono le spade al ramo. Il primo a protendersi per fissare l’elsa sulla sporgenza del pesco fu Masamune che, nonostante la stazza, dimostrò notevole agilità. Muramasa attese impaziente che l’avversario terminasse, quindi completò la stessa operazione del rivale. I tre uomini si misero a riva e guardarono i pesci deviare verso la katana chiamata Diecimila Inverni. Nessuna delle creature ebbe scampo e l’acqua si colorò di rosso. La Mano Delicata invece non sfiorò neppure un pesce. Un’espressione di soddisfazione e di scherno comparve sul volto di Muramasa. La sfida proseguì e i petali del pesco, mossi dal vento, finirono su entrambe le lame. Ancora una volta la spada di Masamune non riuscì a tagliare nulla mentre quella di Muramasa non diede scampo a nessun petalo. Il fabbro più giovane spostò lo sguardo sul volto sereno del rivale. Iniziò a irritarsi per la mancanza d’interesse alla sfida di quel flaccido omuncolo. L’ultima prova coinvolse le foglie che ricoprivano il corso d’acqua come un verde mantello. Quasi mosse da una magia inesplicabile, queste si diressero verso la Juuchi Fuyu e vennero tagliate perfettamente a metà, mentre la Yawaraka-Te non ne scalfì neppure una. Un mulinello d’acqua riportò tutti i fiori tagliati verso la lama di Masamune. Come per incanto, appena uno dei fiori toccava la spada di Okazaki si riuniva indissolubilmente con la parte da cui si era diviso incontrando il filo della katana dell'altro. L’unico suono che disturbò quella scena irreale fu il borbottio di stizza, misto a sorpresa, di Muramasa.

La sua rabbia durò solo alcuni istanti. Aveva vinto la sfida poiché la sua spada, al contrario di quella di Okazaki, tagliava ogni cosa. «Sembra piuttosto evidente chi abbia vinto questa sfida Okazaki! Ti sei dimenticato di affilare la tua lama?» fu la frase derisoria di Muramasa. L’altro non rispose, ma con calma sganciò la propria katana dall’albero, l’asciugò con uno straccio e la ripose nel fodero. Sengu sbuffò, infastidito dal fatto che l'avversario non avesse reagito alla provocazione e anch’egli riprese la sua spada, quindi si voltò verso il monaco e disse: «Allora, bonzo, scrivi su quel dannato pezzo di carta che oggi Muramasa Sengu ha battuto Masamune Okazaki e che le mie spade sono le più taglienti di tutto il Giappone». L'altro lo guardò dritto negli occhi, rispondendo con fermezza: «In realtà ti sbagli, giovane fabbro. La Juuchi Fuyu è senza dubbio tagliente ma è portatrice di sangue. Una spada malvagia che non fa differenza fra ciò che taglia. Può essere buona per fendere farfalle così come teste. La Yawarake-Te invece è la più affilata tra le due e non taglia senza motivo ciò che è innocente. Inoltre la spada di Masamune riesce a riunire ciò che la tua ha diviso». Il volto aquilino di Sengu si rabbuiò. Avrebbe voluto spiccare la testa del bonzo con un colpo della sua lama per farlo stare zitto, ma persino un folle come lui ricordava la sacralità e l'inviolabilità dei monaci. «Ti crogiolerai nel trionfo ora, vero?» domandò Muramasa a Okazaki. «Non mi interessava prima chi fosse il migliore e non mi interessa ora. So che presto gli shogun verranno da noi a richiedere le spade. Mi domando a chi le fornirai» rispose Masamune. «A chiunque possa pagarmi bene» sorrise l’altro. Okazaki si limitò a fare un cenno col capo al monaco e si avviò per la strada che lo avrebbe riportato a casa, nella provincia di Sagami.

Presto sarebbe scoppiata una guerra e tutto il Giappone ne avrebbe sofferto. Aveva molte cose di cui occuparsi e molte altre spade da forgiare. Muramasa lo guardò andar via. Ormai pensava solo a come avrebbe potuto trarre profitto dalla vendita delle sue armi. Nonostante l’esito della disputa, le spade che fabbricava rimanevano le più taglienti ma soprattutto le più sanguinarie. Tutto ciò le rendeva le migliori da usare durante una battaglia. Una spada assetata di sangue dava maggiori probabilità di vittoria rispetto a una che si rifiutava di ferire gli innocenti. Sì, Muramasa Sengu sarebbe diventato un uomo molto ricco. Fu con questo pensiero che si diresse verso la sua fucina. Avrebbe lavorato sodo per produrre il maggior numero di katana possibile. Il monaco, intanto, arrotolò la pergamena e la ripose in un tubo di cuoio. Aveva assistito a uno dei confronti più grandi che la storia dell’umanità avrebbe ricordato. Dentro a quelle spade e a quegli uomini c’era molto di più che la maestria della forgiatura. Aveva visto confrontarsi due poteri opposti. La luce, per ora, aveva vinto. Strano però che entrambe le parti usassero le stesse armi per farsi la guerra. Due katana, due spade dalla forgiatura unica che sarebbero diventate leggenda. Un giorno il mondo avrebbe assistito a confronti ben più spietati di quella semplice sfida fra armaioli e questo pensiero sconvolse la mente del monaco. Egli sperò che le due spade non finissero mai nelle mani sbagliate e soprattutto che le Masamune servissero sempre gli scopi di uomini onesti. Anche il bonzo si diresse verso casa, il monastero che si trovava a pochi ri di distanza dalle colline.

CAPITOLO 1

Stonehenge, 1990

Quella mattina Sam Gilmore si svegliò di buon umore. Non dormiva così bene da parecchi mesi e quella notte finalmente aveva riposato alla grande. La sua stanza nel piccolo albergo di Amesbury nello Wiltshire era confortevole, ma le settimane passavano e lui faticava ad ambientarsi. Si tirò su dal letto per dirigersi in bagno e farsi una doccia. Nel guardare la sua immagine riflessa nello specchio, notò che i neri capelli arruffati somigliavano a un nido d’uccello. Stiracchiò le braccia muscolose che trovarono sollievo in quel lieve allungamento. L’orologio in ottone appeso sopra il letto segnava le sei del mattino. Avrebbe dovuto far presto per arrivare in tempo al sito scoperto a tre chilometri di distanza da Stonehenge. Lavorava lì da circa tre settimane, ossia da quando aveva terminato gli studi di archeologia presso l’università di Cambridge, laureandosi col massimo dei voti. Suo padre, Adam Gilmore, direttore e proprietario della società archeologica Gilmore Society, non desiderava che il figlio perdesse tempo e occasioni. Sam aveva colto subito l’opportunità di poter lavorare al tempio megalitico più famoso al mondo.

Terminata la doccia fece una rapida colazione; bevve una spremuta d'arancia e spalmò burro e marmellata su una fetta biscottata che divorò in pochi istanti. Indossò stivaletti protettivi e abiti dismessi. Quel giorno avrebbe dovuto dedicarsi agli scavi e non poteva preoccuparsi di essere presentabile. Terminato di prepararsi, uscì dall’alberghetto e montò sulla sua auto per dirigersi verso il sito archeologico. Durante il tratto di strada ripensò a tutti gli studi fatti su Stonehenge, il cui nome significa Pietra Sospesa. Visto il loro particolare allineamento, si presumeva che i megaliti potessero rappresentare una sorta di antico osservatorio astronomico. Era incredibile il solo pensiero di come nel 2500 a. C. degli uomini avessero potuto tagliare pietre da venticinque, o addirittura cinquanta tonnellate, da una collina distante trenta chilometri dal sito archeologico e trasportarle fin lì. Le pietre più piccole provenivano dal Galles ed erano state trasportate sin lì su apposite imbarcazioni. Il sistema di costruzione aveva qualcosa d’ingegnoso. Infatti si poteva osservare che si trattava di tre massi che formavano una sorta di porta completa di architrave. Quelli laterali venivano innestati in buche scavate precedentemente, dopo di che veniva innalzato il terzo masso che doveva poggiare orizzontalmente sui primi due. Per bloccare le due rocce verticali, le buche venivano riempite con ciottoli, terra e sassi, mentre per il trasporto e la sistemazione gli studiosi avevano avallato la teoria dell’utilizzo di un complicato sistema di costruzioni di legno e leve.

Questo, almeno, era ciò che Sam aveva studiato ma continuava a restare stupito di fronte all'immensità della costruzione. A volte pensava alle leggende che ne attorniavano la storia e a tutti gli altri siti megalitici sparsi nel mondo, molti dei quali più antichi di quello inglese e costruiti con massi ancora più imponenti. Mentre fantasticava, passò sulla strada che costeggiava Stonehenge e rallentò un poco ammirando la magia che quel luogo emanava al sorgere del sole. Dopo pochi minuti giunse al sito archeologico. Parcheggiò e scese dall’auto, dirigendosi verso i colleghi che lo attendevano per cominciare. «Buongiorno, Sam. Sei riuscito a dormire finalmente?» domandò William Steiner, sorridendogli e mettendogli una mano sulla spalla. «Ti sembrerà strano, ma sì! Finalmente ho fatto un buon sonno» rispose al collega irlandese. «Bene, allora. Mettiamoci all’opera» disse Malcom Sandford, il capo progetto. «Entriamo nella baracca e vi illustrerò i vostri compiti». Si diresse verso una costruzione di legno provvisoria: un prefabbricato utilizzato per il periodo di studio sugli scavi inerenti al villaggio scoperto vicino a Stonehenge. Malcom, dalla folta barba grigia e i capelli dello stesso colore, prese un'ampia mappa e la distese sul tavolo situato al centro della stanza. Sul foglio appariva lo schema di tutto il sito archeologico con le varie aree di lavoro, contrassegnate da lettere e numeri.

Sette archeologi, al momento, lavoravano al progetto. Sam, William, Malcom e altri quattro ragazzi. Tutti piuttosto robusti e giovani, a parte Sandford, l’uomo d’esperienza designato dal padre di Sam per portare avanti gli studi. «Carl, tu lavorerai al punto A6-120. Mi raccomando, fa attenzione: è molto delicata quella zona» ordinò Malcom a un uomo pelato e con un pizzetto nero a punta. «William, ti occuperai della zona B4-154, Sam la C9-163, Marcus E1-190, Thomas tu invece prenderai la G14-110 e tu Theodor la F2- 147». Alzò lo sguardo dalla mappa e li guardò in viso, quindi batté le mani con decisione un paio di volte. «Forza! Tutti al lavoro!». I presenti scattarono fuori dalla porta, dirigendosi presso le aree designate. L’antico villaggio era composto da circa venticinque piccole case, si riteneva che venissero utilizzate per ospitare i costruttori di Stonehenge o i visitatori di qualche cerimonia che veniva lì celebrata. Lavoravano ormai da diverse ore. Sam si stava dedicando con attenzione a un punto molto vicino al muro crollato di una delle piccole abitazioni, quando avvertì un rumore di metallo sotto le mani. Il piccolo attrezzo da scavo che teneva tra le mani, un trowel per l’esattezza, aveva incontrato qualcosa di solido.

Normalmente in quelle occasioni avrebbe dovuto subito chiamare Malcom, ma qualcosa lo trattenne dal farlo. Desiderava scoprire cosa avesse trovato e solo dopo avrebbe chiamato il suo superiore. Scavò con attenzione identificando i bordi di una scatolina di metallo. Continuò l’operazione con calma, scoprendo del tutto l’oggetto: un contenitore di ferro finemente lavorato. Ci soffiò sopra levandone la polvere e lo esaminò con cura. La scatola aveva una serratura a uncino completamente arrugginita. Non resistendo all’impulso l'aprì e all'interno trovò una pergamena arrotolata. Tutto ciò gli parve molto strano. Un oggetto di ferro in un luogo datato nel 2600 a. C. non aveva senso. Ancor meno lo aveva il foglio di pergamena ottimamente conservato. Preso dalla curiosità, aprì il foglio. Com’era possibile che fosse scritto in inglese? L’uomo rimase perplesso ma la curiosità ebbe ancora la meglio. Decise di leggere.

L’ho nascosto perché nessuno lo scovasse, ho dovuto farlo, non potevo lasciare che lo trovassero.

Mi hanno costretto a mentire per proteggere il mio mentore.

Ma qualcuno, prima o poi, lo troverà, la mia anima è dannata e presto finirò all’inferno.

Lo so per certo ormai. Sta a tre metri a ovest della Freyja Sul, interrato dentro a uno scrigno di piombo, il suo potere per ora è celato.

Chiunque legga tali parole è avvertito, non troverà pace finché non avrà adempiuto ai Suoi voleri. Se potete, state alla larga da quel posto.

Sam lesse e rilesse quello scritto senza capirci molto. Innanzi tutto si domandò chi fosse l'autore del messaggio e perché lo avesse scritto se davvero desiderava che nessuno entrasse in possesso di ciò che aveva nascosto. Ne descriveva persino l’ubicazione e lui sapeva benissimo di cosa si trattava. La Freyja Sul era una pietra di Stonehenge, dal nome della dea germanica della fertilità. Gli inglesi lo avevano anglicizzato nel diciassettesimo secolo circa, cambiandolo in Friar’s Heel, Tallone del Frate, o la Pietra del Tallone, così conosciuta ancor oggi. La leggenda narrava che il diavolo aveva comprato i massi da una donna in Irlanda, poi li aveva portati sulla piana di Salisbury, ma uno di essi era caduto nel fiume Avon. Il diavolo aveva riso, sostenendo che nessuno avrebbe mai scoperto il modo in cui le pietre fossero state trasportate. Suo malgrado era stato colto in flagrante da un frate che aveva avuto il coraggio di sfidarlo: “Non ne sarei così sicuro!”. Paonazzo di collera, Lucifero aveva scagliato una pietra verso il monaco, colpendolo sul tallone. Il masso si era conficcato nel terreno e lì sarebbe rimasto sino alla fine dei tempi. Nonostante ricordasse le leggende popolari studiate all’università, Sam non riuscì a ricollegare tutti i pezzi. Per saperne di più avrebbe dovuto scavare nel punto indicato sulla pergamena.

Prese il foglio, lo arrotolò e lo nascose sotto la felpa che indossava quel giorno, incastrandolo tra la cintura dei pantaloni e il proprio corpo. Ripose il contenitore all’interno della buca che aveva scavato e ricoprì il tutto. Decise che, terminata la giornata di lavoro, sarebbe andato in albergo. A notte fonda prestando attenzione a passare inosservato, munito di pala e torcia, avrebbe scavato in prossimità della Pietra del Tallone. Si fermò a pranzare con in colleghi, scambiando poche parole. Nessuno di loro aveva ancora trovato qualcosa di sensazionale. Il sito in effetti era già stato esplorato in passato. Per questo motivo pensava che il cofanetto di metallo fosse stato messo lì da pochi anni. Chi poteva essere l'autore della lettera? Ala fine della giornata William gli si avvicinò. «Allora Sam, vieni a berti una birra prima di tornartene in albergo?». «Grazie, Will, ma sono troppo stanco. Credo che mi farò una doccia e andrò a dormire». L'altro scrollò le spalle. «Fa niente, andrò da solo e mi prenderò sotto braccio un paio di belle ragazze!». Entrambi scoppiarono a ridere. «Beh, divertiti anche per me allora! » disse Sam salutandolo con un cenno della mano. Si avviò verso la sua auto, dirigendosi verso l’albergo. Gli attrezzi che gli sarebbero serviti quella sera li avrebbe recuperati dal sito al quale aveva appena finito di lavorare. Di notte nessuno si aggirava lì attorno. Poi sarebbe andato a Stonehenge e avrebbe iniziato la ricerca. Non desiderava destare sospetti in reception, se qualcuno lo avesse visto uscire sul tardi. Quindi si diresse in camera, buttandosi sotto l'acqua calda. Poi mise dei jeans e una camicia pulita, sopra la quale indossò un maglione di cotone nero. Quindi si sdraiò sul letto e rilesse ancora una volta la pergamena scoperta quella mattina.

Che segreto celava quel reperto? Quale oggetto aveva potuto portare alla follia colui che aveva scritto il messaggio? Il momento di scoprirlo si avvicinava, ma non poteva affrontarlo a stomaco vuoto, così ripose la pergamena in un cassetto e scese nel ristorante per mangiare. Scelse del brasato alla birra. Le finanze del padre gli permettevano di potersi gustare quasi ogni piacere della vita senza dover rendere conto a nessuno. Però trovava soddisfacente il fatto di potersi guadagnare qualcosa lavorando come archeologo. Adam apparteneva a quella categoria di genitori comprensivi che difficilmente vietavano qualcosa al figlio. Viste, soprattutto, le sue capacità e ambizioni. Sam però desiderava molto di più. Non riusciva a rimanere lì ingabbiato tra le grinfie del genitore che, per quanto permissivo, gli imponeva le proprie idee. Doveva trovare un modo per raggiungere i propri obiettivi, senza l’ombra del padre sulla sua testa. Forse la scoperta che avrebbe fatto quella sera sarebbe stato il primo passo verso l’indipendenza che da tempo desiderava. Finì di cenare seduto da solo a un tavolo. Attorno notò poche persone, tutte molto riservate: una giovane coppia che sembrava in rotta di collisione, due anziani i cui occhi luccicavano quando si parlavano. Per finire, una famiglia tranquilla con due bambini che non davano fastidio a nessuno. Che posto magnifico, l’Inghilterra, il Wiltshire in particolare.

Pensieri di pace e serenità avvolsero la mente di Sam per qualche istante. Vi si crogiolò, godendosi il momento. Ma la pace che sentiva dentro di sé, simile alla quiete del campo di battaglia prima di uno scontro, era solo una menzogna, una maschera che indossava per nascondere il proprio stato di agitazione. Terminò la cena e si alzò da tavola. Andò nuovamente nella sua stanza e si lavò i denti. Non sopportava di tenere a lungo il sapore del cibo in bocca. L’orologio segnava le nove, quindi poteva cominciare a muoversi. Senza indugio prese le chiavi della macchina e partì alla volta del sito; doveva recuperare solo una pala e una torcia. Giunto sul luogo non vide neppure una luce. Per fortuna era una di quelle rare sere di bel tempo; il cielo stellato e la luna piena gli davano la possibilità di vedere dove metteva mani e piedi, ma anche nella completa oscurità Sam sarebbe riuscito a orientarsi: ormai conosceva a memoria ogni angolo di quel sito. Recuperò una torcia dalla baracca e l’accese, quindi si diresse verso la rastrelliera degli attrezzi situata in un piccolo magazzino di legno. Caricò il tutto nel baule, rimettendosi in marcia in direzione di Stonehenge. Il cuore batteva all’impazzata per l’emozione.

Avrebbe fatto una delle scoperte più sensazionali della storia? Sperava di sì. Non desiderava dividere con altri quella scoperta, voleva tenere tutto per sé. Spinse la sua auto quasi al massimo e si fermò in prossimità della zona di studio, non molto distante dal circolo di pietre. Spense i fari e recuperò torcia e vanga, poi s’incamminò agitato verso il tempio megalitico. Dovette percorrere un bel pezzo di strada: la Pietra del Tallone si trovava dall’altra parte rispetto a dove aveva parcheggiato. Per qualche istante rimase a guardare la pietra, quindi illuminò il terreno e seguì le istruzioni della pergamena, tre metri a ovest della Freyja Sul. Si mise spalle alla pietra e fece tre passi da un metro circa nella direzione indicata. Si guardò attorno. Aveva paura d’essere osservato. Gli sembrava, improvvisamente, di essere a corto di ossigeno e il respiro si fece affannoso. Cercò di calmarsi, imputando quella strana sensazione all’eccitazione del momento, quindi appoggiò a terra la torcia e iniziò a scavare. Il terreno risultò più duro del previsto, ma non si diede per vinto. Solitamente non usava pale per scavare nei siti archeologici ma in questo caso sembrava il metodo più rapido per trovare l'oggetto che cercava. Fece una buca di circa un metro, ammucchiando la terra lì vicino e insozzandosi completamente, prima di sentire un suono metallico. Si chinò a terra e scoprì i bordi della scatola di piombo descritta nella pergamena. Era tutto vero, dunque!

Prese la pala e cercò di smuovere il pesante scrigno. Ottenne un risultato ben misero. Decise quindi di scavarvi tutt’intorno per liberarne i bordi e capire come aprirla. In fondo a lui interessava il contenuto e non la scatola. Dopo diversi minuti di frenetico lavoro alla luce della torcia elettrica, riuscì a liberare il cofanetto che non aveva alcuna serratura ma pareva avere solo un coperchio a incastro. Si leccò le labbra, secche dopo i numerosi sforzi. Con una mano pulì il coperchio di piombo e trovò i bordi dell’incastro. A causa della terra secca, faceva fatica ad aprire il contenitore. Tentò un paio di volte di sollevare il coperchio con tutta la propria forza, ma senza risultato. Prese quindi un coltellino dalla corta lama a scomparsa che teneva sempre in tasca e iniziò a fare leva. Poco alla volta ebbe successo e divelse il coperchio. L’interno rivelò un involto di stoffa. Sam lo prese tra le mani, trasalendo appena le poggiò sull’oggetto che parve quasi vivo al tatto. Si convinse che fosse solo suggestione e lo tirò fuori dall’involucro. Uscì dalla buca e prese la torcia per illuminare il proprio ritrovamento. Liberò l’oggetto dalla stoffa e tra le sue mani, comparve un libro di una strana rilegatura, senza titolo o scritte che indicassero il nome dell’autore. Sembrava molto antico. I suoi pensieri corsero veloci. Non poteva certo star lì a esaminarlo.

Doveva ricoprire la buca e portarsi via il tomo. Lo avrebbe letto in albergo. Fece proprio così, affrettandosi a nascondere il misfatto e risalendo velocemente in auto. Non sapeva quanto tempo avesse impiegato. Si sentiva sporco dalla punta delle scarpe sino ai capelli ma non gli importava. Aveva tra le mani la scoperta più eccezionale che l’uomo avesse fatto. Ne era certo. E non sapeva neppure quanto avesse ragione. Aveva ricoperto la buca alla bell’e meglio e ora doveva riportare torcia e vanga dove le aveva prese. Si costrinse a rimanere calmo e a respirare regolarmente. Aveva tutto il tempo che desiderava per analizzare il libro che aveva messo sul sedile del passeggero. La stessa sensazione di pesantezza e mancanza d’aria provata poco prima si ripresentò. Non poté far altro che imputarla alla vicinanza del tomo. Cercò d’inspirare a fondo, qualcosa di strano stava accadendo e il libro doveva essere la fonte di questo improvviso malessere. Si trattava più di una percezione, qualcosa di astratto che s’insinuava in lui, ma la sua mente razionale non avrebbe potuto dare un nome a quello che gli stava accadendo. Quando infine giunse in albergo, trovò la reception deserta e si decise a salire in camera. Posò il tomo sul letto e lo fissò con occhi scintillanti. Ora che lo aveva tra le mani si sarebbe gustato il momento della lettura. Non aveva più tutta quell’urgenza che lo aveva attanagliato fino a pochi istanti prima. Si spogliò, gettando i vestiti sporchi sul pavimento, e andò a farsi una doccia. Gli sembrò di metterci un’eternità, ma quando tornò nella stanza da letto fresco e ripulito aveva la mente sgombra da ogni pensiero. Si sedette sul letto e prese in mano il libro. Lo strano materiale che componeva la rilegatura gli faceva rizzare i peli sul collo.

Non ci badò e aprì la prima pagina. Gli si chiuse lo stomaco improvvisamente. Ma cos’aveva quel libro di così sbagliato in sé? È vero, l'autore del messaggio aveva scritto di starne alla larga ma non ne spiegava i motivi. E poi se davvero voleva che nessuno lo scovasse, perché mai scriverne l’ubicazione? Le lettere che componevano le frasi parevano confuse e mescolate le une alle altre a una prima occhiata e Sam si sforzò di decifrare quello che c'era scritto. Era inutile, la scrittura era troppo antica. Come per magia, non se lo sarebbe potuto spiegare altrimenti, le lettere iniziarono ad assumere nuova forma e le frasi parvero assumere un senso compiuto. Sam, nuovamente eccitato e lasciando perdere il senso di nausea che quel libro iniziava a dargli, iniziò a leggere.

L’oscurità giunge ad afferrarti. Due porte sigillate aspettano la giusta chiave.

Quando le troverai, scoprirai felicità e terrore.

Io sono Abū- Maslama Muhammad ibn Ibrahim ibn 'Abd al-da'im al-Majrītī, che le mie parole ti siano da monito.

Sam ebbe un tremito e lasciò ricadere il libro sul letto. Aveva ben capito di cosa si trattasse. Un misto di terrore, repulsione e allo stesso tempo di sete di conoscenza e potere, lo avvolsero come un caldo mantello. Tra le mani aveva un libro che parlava di magia e donava immenso potere. Per anni i filologi più eretici e curiosi avevano creduto, trovandosi contro la tradizione accademica, che il testo originale, quello che conteneva la parte più controversa del libro, fosse andato perduto o forse nascosto. Abū-Maslama Muhammad era un astronomo arabo musulmano, alchimista e matematico. A lui veniva attribuita la realizzazione di numerose opere, tra cui quella del Gayat al Akim, meglio noto come Picatrix, il libro della peccatrice. Nel rinascimento venne tradotto da Marsilio Ficino e fu d’ispirazione per Cornelio Agrippa, che reputava Ficino suo mentore. Nel tardo medioevo però, questo libro aveva la fama, non provata dalla parte di testo tramandata, di essere un pericoloso trattato di magia nera, ipotesi che fece sorridere Sam ma che a un tratto gli provocò un brivido lungo la schiena. Spostò lo sguardo sul libro, i suoi studi lo avevano portato a ricordare la storia misteriosa del volume e finalmente riuscì a dare un nome all'autore del messaggio. Qualcuno era entrato in possesso del Picatrix originale e lo aveva nascosto, ma sapeva che qualcuno prima o poi l’avrebbe trovato.

* * * 

"LE PORTE DELL'ETERNITA' " di Alberto De Stefano - Editrice  - I Doni delle Muse -

Caro Lettore,

arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

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