BIOGRAFIA
Silvia Giuliani è nata nel 1975 a Varese. Ama leggere, scrivere e viaggiare, e da anni racconta i suoi viaggi su un portale internet dedicato al turismo. L’Acqua e il Fuoco è il suo primo romanzo.
PRESENTAZIONE
Caro Lettore,
Giulia ha l’impressione che la sua vita si sia infilata in un vicolo cieco: non ha amici, non ha un compagno, non ha un hobby, ed ha anche perso il lavoro per cui ha sacrificato gli ultimi otto anni della sua vita. A tenerle compagnia ci sono solo una serie di piccoli disturbi e la fissazione per l’igiene, che le condizionano l’esistenza. In seguito a un incidente di sua madre, lascia l’amata Milano e si trasferisce nel suo paese d’origine, sulle rive del lago di Varese, per assistere la sua famiglia, a cui è molto legata. In paese, da donna in carriera si trasformerà in casalinga, dovrà abituarsi a ritmi diversi e soprattutto dovrà affrontare dolorosi ricordi da cui per anni, ha sempre cercato di fuggire.
Con l’aiuto della sua famiglia e di Alessio, suo amico d’infanzia, che accompagnerà in un sorprendente viaggio alle Eolie, Giulia comprende che l’unico modo per riprendere in mano la propria vita è affrontare una volta per tutte il passato. Troverà il coraggio per farlo? Un complesso percorso interiore, attraverso il quale la protagonista cerca di riprendere in mano la propria esistenza. Un racconto di inquietudine e dolore, ma anche di amicizia, amore e speranza.
A volte la vita ci sorprende nei modi più imprevedibili e nei momenti più inaspettati, basta aprire la mente e il cuore, accogliere ciò che nel bene e nel male ci viene offerto, per spalancare la porta alla felicità.
Buona lettura...
L'ACQUA E IL FUOCO
PROLOGO
La soffitta era immersa in una luce fioca e polverosa che filtrava attraverso le poche tegole di vetro posizionate qua e là tra le altre. Era più caldo rispetto al piano inferiore, e l’aria aveva un odore immobile di legno, stoffa e carta. Giulia aveva l’impressione di penetrare in un mondo allo stesso tempo familiare ed alieno mentre, sollevata la botola sopra la sua testa, saliva gli ultimi gradini della scala a pioli, e posava infine i piedi sul cemento ruvido e irregolare. Erano anni non saliva in solaio. Un tempo, invece, era capace di trascorrervi interi pomeriggi, curiosando negli scatoloni e nelle cassettiere, guardando le fotografie dei suoi nonni, leggendo vecchi romanzi dalle pagine ingiallite e perdendosi tra i ricordi di quando era bambina, sfogliando i quaderni delle elementari che sua mamma aveva conservato con cura.
Rimase immobile a lungo, guardandosi intorno. Le travi massicce, lo specchio opaco appeso a un pilastro di pietra. Il vecchio comò che conteneva i cimeli di guerra del nonno: il cappello da alpino, lo zaino sgualcito. Non aveva bisogno di aprire il cassetto e toccarli, rammentava esattamente la sensazione della stoffa ruvida tra le dita. Era un po’ come ritornare a casa dopo un lungo viaggio, e provare la rassicurante sensazione che alcune cose non cambiano mai. Le dita della mano destra stringevano con forza la vecchia chiave, il ferro e le unghie che si conficcavano nel palmo. Sapeva esattamente dove si trovava il baule. Giulia aveva amato quell’oggetto ingombrante, che era tornato dal Brasile con la sorella della nonna poco prima della seconda guerra mondiale.
Respirò a fondo, poi lo raggiunse. Il tetto, in quel punto, arrivava quasi al pavimento, e lei fu costretta a chinarsi. Senza pensarci, si sedette sul cemento, dimenticandosi di tutte le sue fobie igieniche, e passò una mano sulla serratura arrugginita. Provò un brivido a quel contatto. Fissò il baule ancora per alcuni, interminabili istanti poi, quasi con uno scatto, prese la chiave e lo aprì.
CAPITOLO 1
La luce del sole filtrava attraverso le vetrate istoriate della cattedrale, infondendole di colori pieni e brillanti e creando un notevole contrasto cromatico con le colonne scure e disadorne che si innalzavano verso l’alto e terminavano in eleganti archi a sesto acuto. Il pavimento, di lucido marmo bianco intarsiato di disegni geometrici neri e rossi, appariva quasi moderno rispetto al resto dell’ambiente, e i passi delle decine di persone che lo calpestavano risuonavano lungo le navate. Il ticchettio dei tacchi alti, il cigolio di gomma delle scarpe sportive e il sordo rumore del cuoio si mescolavano a un sottile brusio di voci di ogni timbro e lingua, creando la singolare colonna sonora che caratterizzava da sempre l’interno della chiesa. Gruppi di turisti si muovevano disciplinatamente, ascoltando le spiegazioni delle guide, e numerosi visitatori entravano e uscivano in un flusso costante e ordinato. Qualcuno accendeva una candela e si soffermava un attimo davanti a un’immagine sacra, il capo chino in una muta preghiera.
Giulia si sedette su una panca di legno, cercando di rilassarsi contro lo schienale alto e dritto. Chiuse per alcuni istanti gli occhi, esalando dei profondi respiri, e sentì che un piacevole senso di calma si irradiava lentamente in tutto il suo corpo. Da troppi giorni, ormai, la tensione non la abbandonava nemmeno un istante, e lei si sentiva stritolare lentamente dalle sue braccia forti e impietose. In alcuni momenti si ritrovava a lottare con il proprio respiro, improvvisamente corto e affannoso. Sapeva che non si trattava di qualcosa di grave, ma solo di uno stato ansioso dovuto alla sua attuale situazione, e questa consapevolezza la aiutava a ritrovare un minimo di controllo e ad andare avanti anche se, dentro di se’, sentiva che uno strato di agitazione era sempre presente, come la melma sul fondo di un lago, e bastava un niente per rimescolare un po’ le acque e farle intorbidire.
L’aspetto peggiore di tutta la faccenda, considerò Giulia mentre con lo sguardo seguiva le colonne verso l’alto, dove si perdevano nel soffitto dalle elaborate decorazioni, era che non sapeva come uscirne. Sospirò profondamente. Anni di studio, di sacrifici, di lavoro, cancellati in un attimo. Come se fossero stati una macchia di unto eliminata con una passata di spugna e sgrassatore. E ora lei non sapeva più cosa fare, dove andare. Per la prima volta da anni era bloccata in una forzata inattività, e questo la spaventava a morte. Lei aveva bisogno di fare, di viaggiare, di ragionare, di tenere la mente occupata. Non poteva permettersi di stare ferma. Si guardò intorno, chiedendosi se qualcuno dei turisti giapponesi che le stavano passando accanto si trovasse in una situazione simile alla sua, o se fossero davvero tutti sereni come l’espressione dei loro volti suggeriva. Ma d’altra parte erano in vacanza, e stavano visitando quella che Giulia considerava una delle sue opere d’arte preferite. Era ovvio che fossero soddisfatti.
Il Duomo di Milano era uno dei due luoghi che la facevano sentire tranquilla e in armonia con il resto del mondo. L’altro era il lago di Varese. Del primo le piacevano immensamente le luminose vetrate che, nelle rare giornate limpide e ventose, brillavano come pietre preziose incastonate in un grande gioiello, la sobrietà dello stile gotico dell’interno, e la maestosità della facciata. Del secondo amava il rilassante sciabordio dell’acqua, i cigni e le anatre che scivolavano placidamente sulla superficie azzurra e, in genere, l’atmosfera di pace che le trasmettevano i boschi e le montagne che vi si riflettevano. Due luoghi molto diversi tra loro, ma con una caratteristica comune: per Giulia erano a portata di mano. Il Duomo durante la settimana lavorativa, quando lei viveva in città, e il lago nel fine settimana, quando si trasferiva dalla sua famiglia, residente in un paese sulla sponda occidentale. Almeno, questa era stata la situazione fino a una settimana prima. Ma, ora che non aveva più il suo lavoro, Giulia non sapeva se sarebbe rimasta ancora a lungo a vivere a Milano.
Questo pensiero le fece tornare un poco di affanno. Si voltò verso destra, concentrandosi sulle vetrate e sforzandosi di pensare ad altro, pur sapendo che sarebbe stato difficile: quando era uscita per l’ultima volta dalla sede della società che, per otto lunghi anni, era stata la sua seconda casa, aveva avvertito un’opprimente sensazione di vuoto che l' aveva lasciata stordita, confusa, e che non l’aveva più abbandonata. Anche durante le poche ore di sonno che riusciva a concedersi con l’aiuto di un blando tranquillante, non era mai completamente rilassata. Scacciò con un gesto secco della mano i ricordi di quell’ultimo giorno, come se si fosse trattato di una fastidiosa zanzara, ma ormai le immagini avevano preso a fluirle nella mente e non fu in grado di trattenerle. Aveva trascorso la maggior parte della giornata fissando il video del suo pc e controllando i cassetti della scrivania, per verificare di non abbandonare niente che le appartenesse. Non che avesse molte cose personali, in ufficio: caramelle alla menta, una crema per le mani, medicinali vari, fazzoletti di carta e poco altro. A lavorare non ci pensava proprio, visto come era stata trattata. Anzi, aveva accarezzato l’idea di proteggere le cartelle di lavoro con nuove password o, addirittura, di eliminarle. Ma non sarebbe stato professionale, e vi aveva rinunciato. Poco prima dell’orario di chiusura aveva salutato i colleghi, ma non c'erano stati ne’ abbracci, ne’ lacrime. Non aveva mai legato con nessuno, limitandosi a parlare solo di questioni di lavoro. Aveva abbandonato l’edificio per l’ultima volta senza voltarsi indietro, e si era diretta verso la fermata del tram in modo automatico, senza quasi rendersene conto.
Sapeva solo che non voleva arrivare a casa. Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe trascorso le sue giornate? Il vuoto che la attendeva la terrorizzava, e forse fu per questo che, durante il tragitto in metropolitana, aveva perso la nozione del tempo e dello spazio, ed era quasi al capolinea quando si era accorta di non essere scesa alla sua fermata. La borsa che aveva appoggiato accanto a se’ sulla panca emise delle leggere vibrazioni, segno che il cellulare stava ricevendo una chiamata, strappando così Giulia ai suoi pensieri. Giulia non spegneva mai il telefono, si limitava a eliminare la suoneria nei luoghi in cui non sarebbe stato opportuno farlo squillare. Non poteva permettersi di non essere rintracciabile, tanto più in un momento come quello. Si alzò velocemente e, mentre si dirigeva verso l’uscita a passo spedito, rovistò speranzosa nella borsa, alla ricerca del telefono: magari si trattava di un’offerta di lavoro. Fu quindi con una certa delusione che vide il nome di sua sorella lampeggiare sul display. Rispose non appena ebbe messo piede fuori dalla cattedrale.
“Elena?” “Ciao Giulia. Senti, adesso non agitarti, ma è successa una cosa…” Giulia si spaventò. Come poteva non farlo, se sua sorella esordiva dicendole di non agitarsi? “Stai bene?” si preoccupò Giulia. Elena era incinta, ma si trattava di una gravidanza a rischio e doveva stare a riposo. “Sì, sì, io sto bene, è…” “Stefano?” la interruppe Giulia. Stefano era il figlio di Elena, e Giulia lo adorava. Non avrebbe sopportato che gli fosse successo qualcosa di grave. “No, no, non si tratta di Stefano…” “La nonna?” La nonna era in forma, ma aveva ottantadue anni, dopotutto. “Giulia, la pianti di interrompermi?”, si spazientì Elena.
Giulia fece un respiro profondo. “Ti ascolto.” “Si tratta della mamma. E’ caduta dalla scala mentre raccoglieva le ciliegie con lo Stefano. Abbiamo chiamato l’ambulanza, ormai starà arrivando in ospedale. La nonna mi ha detto che il braccio destro era in pessime condizioni, si vedeva un osso, addirittura. Dovrà essere operata.” Giulia rabbrividì’, soprattutto al pensiero della frattura esposta. Non ne aveva mai vista una, e pensò che se fosse stata presente al momento dell’incidente, probabilmente sarebbe svenuta. “Il papà è andato con lei, e la nonna è rimasta qui con noi. E anche con un sacco di altre persone. Sai com’è, quando in paese passa un’ambulanza si agitano tutti. C’erano almeno venti persone sul prato mentre la mamma veniva medicata, me l’ha detto la zia. Io, naturalmente, sono stata tenuta al sicuro, qui in casa”, aggiunse Elena, con una certa irritazione. Le pesava molto rimanere in disparte e vedere gli altri che si davano da fare per evitarle il minimo sforzo. Era sempre stata indipendente, e sopportava tutto ciò con grande sforzo, solo per il bene del suo bimbo. “Telefono al papà, allora, poi prendo il primo treno e arrivo”, dichiarò Giulia, incamminandosi con passo svelto verso l'ingresso della metropolitana. “Va bene, ma stai tranquilla, fai con calma. Non è necessario che tu corra a casa oggi stesso.”
Giulia guardò l’orologio. Erano le cinque del pomeriggio. In un paio d’ore avrebbe potuto essere a casa dei suoi genitori. Non aveva bisogno di passare dal suo appartamento: dal momento che trascorreva quasi tutti i fine settimana con la sua famiglia, aveva tutto ciò che le serviva nella sua vecchia camera, dagli abiti sportivi alla scorta di lenti a contatto, cosmetici, creme e medicine. La stazione non era lontana, e normalmente Giulia avrebbe percorso a piedi il tratto di strada che la separava dalla piazza del Duomo, ma in quel momento venti minuti potevano fare la differenza e quindi si precipitò giù dalle scale che portavano alla metropolitana. Non ricordava gli orari dei treni per Laveno, ma sapeva che ne partiva uno ogni ora, e non voleva rischiare di perderlo per pochi minuti. Durante l’attesa inviò un sms a Gloria, la sua coinquilina, per avvertirla che non sarebbe rientrata, quella sera. Si sentiva un po’ a disagio a lasciare la città, e non solo perché lo stava facendo in modo così improvviso e frettoloso. Da quando aveva perso il lavoro aveva quasi paura a lasciare Milano, come se la lontananza potesse precluderle eventuali possibilità di lavoro. Sapeva che era irrazionale, ma non poteva farci niente. Il pensiero di sua mamma in sala operatoria, però, era più forte del timore di partire. Giulia era molto legata alla sua famiglia. Anni prima aveva vissuto sei mesi negli Stati Uniti e, sebbene avesse molto apprezzato l’esperienza, le era stato difficile sopportare la lontananza dai suoi cari. Le piaceva trascorrere del tempo chiacchierando con la mamma e la nonna, o giocando con il nipotino, o facendo shopping con la sorella.
Era una famiglia unita, la sua, e per Giulia era un rifugio e una fonte di energia. Ora, sapere che sua mamma, una donna forte ed vitale, era in una sala operatoria, la atterriva. E poi i suoi genitori erano sempre stati in salute, e lei non era abituata ad accudire degli ammalati. A parte se’ stessa, naturalmente. Non che avesse mai sofferto di qualcosa di grave, ma aveva una serie di piccoli disturbi che non la abbandonavano da anni: doveva seguire una stretta dieta per curare delle intolleranze alimentari, il suo naso non voleva saperne di funzionare a dovere, e la gola, a volte, non voleva essere da meno. Inoltre soffriva di ipotensione, di insonnia, era ansiosa e aveva una pelle particolarmente delicata, che risentiva anche di un piccolo raggio di sole, se non adeguatamente protetta. Infine, era terribilmente schizzinosa, e vedeva pericoli di infezione ovunque. In pratica, Giulia trascorreva buona parte del proprio tempo destreggiandosi tra gocce, spray, pastiglie e creme, e scrutando scrupolosamente ogni millimetro quadrato della propria pelle. A volte, doveva ammetterlo, era un po’ stressante.
Arrivò in stazione e acquistò il biglietto ancora prima di controllare il tabellone con gli orari delle partenze. Il treno era già al binario, e Giulia salì alla ricerca di un posto libero che non fosse troppo vicino a quelli già occupati da altri passeggeri. Giulia non amava il contatto troppo ravvicinato con le persone, tanto più se si trattava di sconosciuti. Si sedette accanto al finestrino, respirando affannosamente per la corsa e l’agitazione. Era caldo, e si sentì improvvisamente debole; probabilmente aveva avuto un calo di pressione, considerò. Aprì la borsa alla ricerca di una liquirizia e del telefono. Adesso che era sul treno, poteva chiamare il papà. Giovanni rispose dopo due soli squilli. Non aveva mai amato particolarmente il telefono cellulare, e aveva la tendenza a tenerlo in tasca spento. Quando le figlie e la moglie si lamentavano, si giustificava dicendo che lo portava con se’ nel caso gli dovesse servire. Non considerava che magari gli altri potevano avere la necessità di contattarlo, e questo concetto faceva impazzire Giulia ed Elena. Il fatto che ora avesse risposto così velocemente, per Giulia era inquietante. “Come sta la mamma?” chiese subito Giulia, senza nemmeno salutare. “Giulia?” Giulia alzò gli occhi al cielo. Gli aveva spiegato innumerevoli volte che, se osservava il display prima di rispondere, poteva leggere il nome di chi lo chiamava. “Sì, sì, sono io. Allora?” “Ha tre costole rotte, ed è appena entrata in sala operatoria per il braccio. Non era messo bene. I dottori hanno detto che non sarà un intervento veloce.” “Il treno sta per partire. Tra un paio d’ore sono lì.” “Sei già sul treno?” si stupì Giovanni. “Si’. Sono partita appena Elena mi ha telefonato. Ero in Duomo, sono arrivata in stazione in un attimo, e per fortuna non ho dovuto attendere molto il treno.” “Ti se’ sempre insci’ presose! Potevi fare anche con più calma.” Giulia veniva spesso redarguita per la propria impazienza. Per evitare ulteriori commenti, decise di tagliare la conversazione. “Pronto? Pronto? Papà non ti sento più… ci vediamo più tardi. Ciao.”
E riappese, ignorando la voce del padre che, forte e chiara, le diceva che lui la sentiva benissimo. Si appoggiò con cautela allo schienale. In genere cercava di non farlo, così come evitava di toccare il meno possibile ciò che la circondava, quando si trovava in un ambiente pubblico, ma in quel momento si sentiva così debole e agitata che decise di correre qualche rischio. Mentre il treno, lasciata la stazione, attraversava la periferia della città, Giulia si chiese, con un misto di amarezza e sconforto, cos’altro poteva andare storto. La perdita del lavoro, Elena e la sua gravidanza a rischio, e adesso la mamma… senza contare tutte le sue piccole malattie. Possibile che tutto doveva andare male? Rimuginò sulla questione, senza trovare una risposta, fino all’arrivo a Varese, dove scese dal treno e prese un taxi per arrivare al pronto soccorso dell’ospedale.
Non era mai stata nel nuovo complesso ospedaliero, inaugurato da un paio d’anni. Abituata al precedente, una serie di padiglioni piuttosto vecchi e malandati, le sembrò di entrare in un moderno hotel. Individuò velocemente suo papà, seduto su una sedia, e la zia, in piedi accanto a lui. Come sempre, fu colpita dalla somiglianza tra i due: gli stessi capelli ondulati e la medesima carnagione chiara, caratteristiche che, con suo grande disappunto, lei stessa aveva ereditato. Avrebbe desiderato una pelle un po’ meno incolore e una chioma liscia e setosa come quella della madre e della sorella, e da anni non usciva di casa senza un po’ di trucco e senza aver stirato i capelli. La maggior parte delle persone che aveva conosciuto in età adulta ignorava che lei avesse i capelli mossi.
Si avvicinò rapidamente ai suoi familiari, che la abbracciarono calorosamente. “Novità?”, si informò. “No. Ci vorrà ancora parecchio tempo, da quello che hanno detto quando l’hanno portata via”, rispose Giovanni. “Ma non era necessario che corressi qui così velocemente. Potevi venire domani, con calma.” Giulia alzò le spalle. “Non è che avessi molto da fare, a Milano. Almeno, qui sarò utile.” “Hai fame? Sete? Hai bisogno di qualcosa?”, si informò la zia. “No, no, sto bene”, mentì Giulia. In effetti, avvertiva un leggero appetito, ma cosa poteva trovare in ospedale? Qualche panino, forse, ma lei proprio non lo poteva mangiare. Si sedette accanto al padre. L’attesa sarebbe stata lunga, e avrebbe desiderato avere con se’ un libro, per ingannare il tempo e tenere a bada l’ansia. Dopo un'ora stava lentamente scivolando in uno stato di torpore, e l’improvviso vibrare del cellulare quasi la spaventò. Lo recuperò dalla borsa, e sorrise nel vedere il nome di Alessio. Aveva proprio bisogno di sentire una voce amica. “Ale, ciao” disse, camminando rapidamente per uscire all’aperto. “Ciao, Giulia. Ho saputo di tua mamma. Come va?” “Non so ancora niente. Sembra che sarà un intervento lungo, il braccio era in pessime condizioni. E ha tre costole rotte.” “Sei già in ospedale, vero?” Giulia oltrepassò la porta, lasciandosi alle spalle l’odore di disinfettante e l’aria condizionata. Era una serata di inizio giugno dall’aria tiepida, piacevole. Iniziò a percorrere lentamente il marciapiede che andava verso il parcheggio coperto. “E tu come fai a saperlo?”, gli chiese. Alessio rise. “Non lo immagini? Mia mamma ha chiamato tua nonna, che aveva appena parlato al telefono con tua zia. Sai come vanno queste cose, in paese.” Giulia non seppe trattenere un sorriso.
Si trattava di un paese piccolo, che non arrivava a contare un migliaio di anime, dove tutti erano amici o parenti. Certo, negli ultimi anni erano sorte parecchie villette a schiera, ed erano così arrivati nuovi abitanti, ma questi ultimi costituivano un nucleo a se’ in quella che si poteva definire la periferia. Giulia sapeva bene cosa accadeva al passaggio di un’ambulanza lungo una delle poche vie: gli abitanti si affacciavano alle finestre, e si telefonavano per sapere dove si era fermata. Quando l’operazione non dava frutti (raro), si controllava chi c’era sulla macchina che la seguiva mentre abbandonava il paese e si facevano congetture. “Ho quasi finito di lavorare”, stava intanto dicendole Alessio, “ti raggiungo non appena mi libero.” “Ma no, non è necessario”, protestò Giulia. “Mi fa piacere, davvero. Ora però devo andare. Fammi sapere se ci sono novità. A dopo.” E riappese.
Giulia rimase per alcuni istanti a fissare il telefono. Anche se non voleva che Alessio si disturbasse, le avrebbe fatto piacere vederlo. Alessio era il suo migliore amico da sempre. Aveva vissuto nel cortile accanto al suo fino all’età di dodici anni, quando si era trasferito in una casa nuova, a qualche centinaio di metri di distanza. Era figlio unico e, data la vicinanza, lui, Giulia ed Elena erano praticamente cresciuti insieme. Inoltre, lui e Giulia avevano la stessa età, ed erano stati compagni di classe dalla prima elementare alla quinta superiore. I loro cammini si erano separati solo alla scelta dell’università, quando lui aveva seguito le orme paterne ed era diventato dentista, ma avevano comunque mantenuto uno stretto legame di amicizia. Insieme avevano studiato, viaggiato, sognato. Giulia lo considerava un fratello. Arrivò un’auto a tutta velocità, da cui scese un ragazzino con una gamba sanguinate, scortato da una donna pallidissima, sicuramente la madre. Giulia li seguì con lo sguardo fino a che scomparvero dietro la porta scorrevole, poi si diresse a passo di marcia verso l’ingresso dell’ospedale, dove aveva sentito dire che c’era un bar. Acquistò un paio di panini al prosciutto crudo per il padre e la zia, e delle bottigliette di acqua a temperatura ambiente, poi tornò al pronto soccorso.
* * *
" L'ACQUA E IL FUOCO " di Silvia Giuliani - Editore Pietro Macchione -
* * *
Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.