BIOGRAFIA AUTORE
Christian Amadeo ha 43 anni e vive a Settimo Torinese. Fa l'impiegato per sopravvivere e vive per fare il giornalista e per scrivere racconti. Combatte ogni giorno per sopravvivere alla furia dei contribuenti, essendo responsabile dell'ufficio tributi di un noto Comune alle porte di Torino e quando riesce a tornare a casa sano e salvo si dedica a ciò che ama di più: la scrittura.
Scrive da più di vent'anni di ciò che più lo emoziona, la musica, collaborando attualmente con TorinoSette (inserto del quotidiano La Stampa) e La Nuova Voce di Settimo Torinese, dopo aver prestato la propria penna e la propria voce a mensili, settimanali, quotidiani, radio tv e portali (tra le testate Tuttifrutti, Rockstar, Rockit, Il Giorno, Il Giornale del Piemonte, Rai di Torino, Radio Chivasso International), oltre ad essere direttore di alcuni periodici. A richiesta, ci mette anche la faccia, moderando incontri con celebri artisti della musica o presentando serate e concerti.
È sposato da 19 anni ed è padre di due figli, che oggi hanno 16 e 14 anni. Ama lo sport, fermamente convinto che sia meglio praticarlo che guardarlo in tv e da tempo si è immerso nelle arti marziali giapponesi, delle quali ama la connessione tra fisicità, filosofia e spiritualità: per 20 anni ha praticato l'Aikido e attualmente si cimenta con il ju jitsu.
Adora leggere libri, ovviamente, mettendo in cima alla lista di autori preferiti Paulo Coelho, Leopold von Sacher-Masoch, Herman Hesse, Charles Baudelaire, ma anche scrittori italiani come Niccolò Ammanniti e Alessandro Baricco.
Il 17 aprile 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo intitolato «Un passo dalla morte», edito in versione e-book da Lettere Animate.
Attualmente sta lavorando al libro su di una band anglo-australiana, i Dead Can Dance, per Tsunami Edizioni.
PRESENTAZIONE
Il proprio Sé che muore. Lasciato morire, senza lotta. Una morte cercata e voluta perchè quel Sè era morto da un pezzo e solo attraverso la morte consapevole poteva rinascere, sbocciare e cominciare finalmente a vivere in pienezza. Dei balordi in una via appartata della città accerchiano il protagonista e lo aggrediscono violentemente e lui non riesce a reagire, nonostante la sua prestanza fisica. Non vuole reagire. Si lascia andare e i teppisti infieriscono fino ad ucciderlo con una pugnalata nello stomaco.
È il percorso di Stefano, che muore e rinasce nelle vesti di Steve, un ragazzo ben più determinato del suo alter ego. Steve affronta la vita con la consapevolezza della morte, perchè di essa non ha timore, l'ha conosciuta intimamente, è stata l'artefice della sua rinascita, è grazie a lei se ora finalmente assapora ogni istante del quotidiano, se ha fatto proprio il coraggio che mancava a Stefano. Si lancia senza timore per ottenere ciò in cui crede.
Ad aprirgli la nuova strada è l'incontro avuto in sogno con un samurai, che gli insegna con pochi gesti e parole incisive cosa significhi vivere quotidianamente con la consapevolezza della morte.
Raggiunge il successo professionale diventando una rockstar, un ruolo di privilegiato che lo porta presto ad assaporare i piaceri del sesso nelle sue varie sfumature.
Si prende una cotta per Lydia, una ragazza stravagante, alternativa, dark. Si conoscono al cimitero, luogo di morte da cui nasce la loro storia d'amore. Morte e vita. La rivede ad un suo concerto, durante il quale lei, tra il pubblico, compie un gesto clamoroso, tagliandosi le vene proprio davanti a lui, in modo eclatante e spettacolare. Per attirarlo a sè.
Steve la cerca, la raggiunge all'ospedale e da lì cominciano a frequentarsi. Si reca nei suoi due luoghi di lavoro: l'ufficio di onoranze funebri e il locale notturno gotico. In quest'ultimo conosce Gloria, amica-amante di Lydia.
Il padre della ragazza tenebrosa viene ucciso durante un gioco erotico e Lydia sembra tutt'altro che rammaricata. In un momento di trasporto ha raccontanto a Steve la sua infanzia con un padre violento e autoritario che ha causato la morte dell'amata e dolce madre. È stata Gloria ad uccidere l'uomo e dopo aver compiuto l'omicidio l'amante di Lydia si suicida.
La morte continua a viaggiare al fianco di Steve, attraverso comunicazioni medianiche e incontri con spiriti di miti del rock.
E la morte si accompagna sempre alla storia con Lydia, tra lunghe discussioni e stravaganze sessuali.
Steve una sera passeggia tra vie poco frequentate della città. Come quella sera in cui fu ucciso da alcuni balordi. Anche in questa occasione incontra soggetti poco raccomandabili, ma non si lascia più sopraffare e uccidere: combatte, lotta per difendere la propria vita e ne esce vittorioso, forte di una determinazione inarrestabile. Attaccamento alla vita, a questa vita.
Lydia lo invita a casa sua, a cena. L'atmosfera è diversa dal solito, si percepisce l'arrivo di un evento importante, di quelli che stravolgono l'esistenza, che la segnano per sempre. Tutto preparato a dovere dalla ragazza, che guida Steve in un gioco erotico al limite del lecito, al limite della sopravvivenza. Lydia sapeva, Lydia voleva. E ha portato Steve ad ucciderla durante l'amplesso, durante l'orgasmo. Vita e morte.
Steve, sconvolto, lascia il corpo riverso ed esamine e fugge via. Raggiunge un luogo isolato, parcheggia la macchina e si addentra in una fitta boscaglia con sentiero in salita. Durante il tragitto incontra gli spiriti delle persone che hanno profondamente segnato la sua esistenza: Stefano, il samurai, Gloria, Lydia, Steve...
Raggiunge la radura in cima, si spinge fino al ciglio del burrone. Resta in bilico tra la vita e la morte. Un passo indietro per restare vivo, un passo avanti per incontrare nuovamente la morte.
Non fa differenza alcuna.
* * *
Buona lettura...
UN PASSO DALLA MORTE
Soltanto il trascorrere del tempo e la lontananza possono alleviare il dolore della scottatura. Il calore della vicinanza, degli sguardi, delle connessioni. Il tempo e la distanza senza collegamenti, come se il mondo fosse sconnesso. Nessun mezzo di comunicazione. Ma adesso il collegamento c’è, ed è forte e chiaro, senza interruttore alcuno a mia disposizione. Mi scotta perché il suo fuoco eleva fiamme altissime, che illuminano la realtà che stiamo vivendo. Mi bruciano, le fiamme, lasciano segni indelebili, che un domani, senza il collegamento, potranno resistere soltanto sotto forma di cicatrici, fredde, visibili ma indolori, prive di emozioni vive.
Dovrei togliermi, scappare da questo incendio? Per andare dove? In un luogo gelido ed arido? Nel mondo dove è impossibile bruciarsi? Sicuro e privo di insidie, certo, ma anche privo del vortice emozionale, del contesto di rapimento e di estasi. Oggi voglio scottarmi, voglio godere del magnifico spettacolo di questo incendio, dei suoi colori, del suo calore. Voglio bruciarmi, leccarmi le fresche ferite, anche se la coscienza mi dice che un giorno non mi resterebbe che guardare i segni del tempo che fu, vivere di flebili ricordi. Ma fa parte del cammino della mia vita e in questo fuoco desidero oggi gettarmi. Non rischio la vita, VIVO.
La notte ha il suo indubbio fascino. L’oscurità, l’ignoto, l’esplorazione, la scoperta di ciò che di giorno appare al contrario così nitido e trasparente. Di giorno la pigrizia, il piatto pronto, tutto perfettamente delineato, nessuno sforzo è richiesto per comprendere e vedere. È sufficiente aprire gli occhi e osservare, seduti comodi e la vita che scorre sullo schermo. Nessuna iniziativa, nessuna azione per fare chiarezza. Lo è già.
Di notte prevale la difficoltà nel distinguere nitidamente le sagome, è facile confondersi, percepire erroneamente, perdersi. La notte cela, nasconde, sorprende, ma è anche capace di rivelare ciò che si tenta di evitare alla luce del giorno.
Dà l’impressione di essere quieta, con il suo silenzio che invade le strade e si sostituisce ai clamori delle ore di luce solare.
Di notte tutto rallenta, tutto frena. Rallenta il battito del cuore, rallentano i ritmi della vita. I tempi si dilatano. Poche ore nell’oscurità valgono quanto una giornata intera, dall’alba al tramonto. Il traffico viene inghiottito, i rumori assordanti tenuti a bada per alcune ore. Le strade scorrevoli vengono fatte proprie di diritto, vi si viaggia come se si fosse il legittimo proprietario, la sicurezza aumenta a dismisura, incontrollatamente, pericolosamente. Aumenta col crescere dell’oscurità. Perché l’oscurità dona sicurezza a chi ha il piacere di viverla, mostrando sempre e solo un lato e nascondendone molti, forse infiniti. C'è consapevolezza del rischio, ma non lo si vede. Si procede a velocità elevata, si consuma in fretta come se fosse l'ultimo giorno della propria esistenza.
Vivere tutto per non perdere nulla.
La notte trasforma le anime, le catapulta in un’altra dimensione. L’approccio cambia. La notte autorizza a trasgredire, perché quando è il nero a dominare, tutto è permesso, tutto è lecito. Il nero nasconde, ma anche rivela. Nasconde le paure, svela la vera essenza. Issare un telo nero equivale a proteggere dall’esterno, nessuno può vedere cosa c’è dietro. Ma dice tutto. Dice: non provate a guardare oltre, sarebbe uno sforzo inutile. Ma proprio per questo svela il tutto: al mondo esteriore comunica la propria incomunicabilità. Lasciatemi stare, io sono così come sono, non provate ad entrare nel mio mondo, è solo mio e ne faccio ciò che voglio, compreso il proteggerlo dalle intromissioni altrui, da chi vuole penetrare in me, da chi vuole invadere la mia intimità. Lasciate perdere, fatevi gli affari vostri.
C’è anche paura in tutto questo, paura di esporsi, di essere contagiati, di percepire pericolo per il proprio Io, apparentemente inamovibile. Non si coglie l’opportunità di confronto e cambiamento radicale, no, solo pericolo. Come i confini di uno stato, che vanno difesi fino alla morte, perché altrimenti il proprio popolo potrebbe essere infettato dall’invasore, con la sua cultura, le sue idee, i suoi credo, le sue abitudini. Scacciare con determinazione il rischio di contagio.
Difendere la vita con tutte le proprie forze, tenere lontana la morte. Prendere le distanze dalla morte, come da un nemico, senza capire che solo stringendo alleanza con essa si può sopravvivere. Con la morte nel cuore per sentirne forte il battito, il pulsare della vita. Rintocchi potenti, che fanno vibrare ogni cellula della struttura corporea, diffondendo energia vitale, risvegliando l'essere dal torpore quotidiano. Dal morire quotidiano...
Vivere di giorno, per affrontare la vita guardandola bene in faccia.
Vivere di notte, per affrontare l'ignoto, per girare tra le strade buie con la morte dietro l'angolo...
Ma potrebbe essere l'esatto contrario.
Punti di vista.
Un sottile brivido percorre il mio corpo mentre cammino lungo la strada. Di notte. Quei brividi suscitati dall’adrenalina che sgorga spontanea quando si mischiano la paura e la sete di conoscenza dell’ignoto. Come un salto nel vuoto, una difficile prova da superare, una nuova avventura. Irresistibile attrazione, voglia di scoprire, cambiare, buttarsi. Senza conoscerne le conseguenze, in totale assenza di una nitida visione del dopo, del vivere oltre, oltre una breve distanza da coprire con un salto di pochi metri, centimetro dopo centimetro, misura esigua capace di mutare il proprio vivere in un batter d'occhio, se solo riuscisse a prevalere il sentimento del coraggio. Oltre il passo potrebbe anche esserci la morte, o un profondo dolore. Ma ciò produce adrenalina in maggiore quantità. Offre lo stimolo di cui si necessita, quello di andare, provarci. Un passo dopo l’altro, e ogni volta che una gamba avanza regna l'incognita, se il terreno sosterrà l'intero corpo quando la pianta del piede lo raggiungerà. Si potrebbe sprofondare o essere sostenuti solidamente. Si potrebbe avanzare con passo deciso o esitare ad ogni metro.
L'intenzione fa la differenza.
Con piena determinazione ogni cosa produrrà una crescita, in ogni caso: il terreno solido rafforza la sicurezza, spinge ad andare oltre, a camminare più in fretta, a correre, a saltare. Con determinazione, un terreno fragile e cedevole è solo di stimolo, estrae dal profondo del proprio essere la forza interiore, quella inconscia che consente di rialzarsi e lottare con ancor più vigore. Nasce un'opportunità, non un problema insormontabile.
Se invece l'animo è insicuro, ad ogni passo in cui il piede impatta su terreno solido si può solo tirare un sospiro di sollievo. La sorte affidata a fattori esterni, al caso, al destino, alla fortuna. E l'ansia si ripete per tutta la vita. Sperando nelle circostanze fortuite, pregando affinché la fortuna assista il proprio incedere.
Con un animo fragile camminare equivale a sprofondare inesorabilmente, ad affondare senza speranza alcuna di ritornare a galla. Soltanto un aiuto esterno potrà salvare l'anima errante, altrimenti sarà un perire senza lotta.
Un abbandono al fato.
Il libero arbitrio opta per la resa e il destino lo asseconda.
Bilanciare destino e libero arbitrio, eterno dilemma dell’essere umano, a cui nessuno si può sottrarre. Mai.
Il segreto sta tutto lì, ascoltare ciò che ci suggerisce il destino, e agire col libero arbitrio, per combattere, gioire, soffrire, andare giù e risalire. Fermarsi, ascoltare e ripartire.
Quante volte non abbiamo ascoltato i segnali che ci avvertivano sulla strada da prendere, e siamo rimasti sordi.
Quante volte non abbiamo seguito i sentieri illuminati dalla luce che ci appariva, e siamo rimasti ciechi.
Quante volte siamo stati accarezzati sulla pelle da una mano piena di compassione, e l’abbiamo scacciata con un gesto secco di stizza, infastiditi da essa.
Ascoltare, con pienezza. Ci dimentichiamo di farlo. Spesso, troppe volte. Il nostro libero arbitrio è sovrastato dalla frenesia, dal correre quotidiano incurante dei limiti che ci vengono dettati. Limiti di leggi non scritte, ma leggibili con il solo occhio del nostro cuore. Il libero arbitrio viene sottomesso dalla pigrizia dalla scelta di ciò che richiede meno fatica e allora offriamo campo libero al destino. Ma non sempre il destino ci dona un sorriso…
Le strade semibuie, pochi lampioni, le macchine parcheggiate, gli alberi, i palazzi. Qualche auto che passa, il rumore che si ode in lontananza, che si avvicina, accosta, passa oltre, si allontana. Il suono, prima lontano, lieve, poi forte, fortissimo, si alza una folata, foglie che volano arrotolandosi su se stesse, cartaccia che corre sul marciapiede, i fari accecano.
È solo un istante, il rombo cala.
Ogni passaggio un brivido. L’auto potrebbe fermarsi e da essa scendere dei malintenzionati. Potrebbe semplicemente accostare e i suoi occupanti chiedermi un’indicazione. Potrebbe proseguire e ignorarmi del tutto.
Mi ignorano.
Ma io non potevo saperlo.
Le sensazioni si ripetono ad ogni veicolo che passa. Poche, ma intense emozioni. Ignoto che diventa noto, e solo allora dà tregua alla tensione. Come i miei passi sull’asfalto, ad ognuno potrei inciampare, scivolare, cadere, prendere una storta. O andare avanti con stabilità ed equilibrio. Mi sento traballante, la paura prevale sulla voglia di scoperta.
Rumori che di giorno vengono inghiottiti in un mare caotico, nella notte sono tuoni nel silenzio. E fanno tremare. Anche il silenzio fa tremare. Lungo le vie semideserte il silenzio mi spaventa più del rumore. Raddrizzo le orecchie, attendo l’arrivo di un’altra auto. Ci spero. Il silenzio mi fa battere forte il cuore. Ma pure l’avvicinarsi delle auto provoca la stessa tensione. Sono in bilico, tra silenzio e rumore. Tra solitudine e condivisione di esperienze con altri. Tra il frastuono della vita e la calma piatta della morte.
Dal lungo viale alberato, con palazzoni, macchine parcheggiate persino sul marciapiede, e lampioni che espandono le loro luci tra le fronde degli alberi come raggi di sole tra le nuvole, mi defilo nella via traversa. La luminosità si affievolisce ulteriormente, trattengo il fiato per qualche istante, per abituarmi alla nuova condizione. Una strada decisamente stretta, a senso unico. Più cammino più i rumori svaniscono. Ora non sento passare macchine, da qui transitano solo le persone che abitano nella zona. Devo raggiungere degli amici, l’appuntamento è in un pub di questa zona che adoro per i suoi locali notturni ma che odio per le sue vie semideserte, le case dalle facciate deturpate, la gentaglia che qua e là si trova seduta sui gradini, persino sdraiata sui marciapiedi. Tipi tutt’altro che raccomandabili, ovviamente. Individui che non vorresti mai incontrare, soprattutto in queste zone così cupe.
Faccio lo slalom tra un gruppo di nordafricani. Non si spostano di un centimetro per farmi passare e sono quindi costretto ad aggirarli, a scavalcarli, a mettere un piede qua e uno là facendo attenzione a non tirare qualche calcio o dare un pestone a questi disgraziati. Mi aspetto una reazione, da un momento all’altro, un calcio, un pugno, una coltellata. Se dovessero aggredirmi non avrei molte speranze, sono troppi e sono tutti sul fuso andante. Scavalcata la barriera umana, tiro un sospiro di sollievo mentre lascio alle mie spalle quelli che presumo siano insulti in lingua a me incomprensibile. Ho osato attraversare il loro territorio, che si sono conquistati con ben pochi meriti, usando violenza, arroganza, strafottenza, alimentati da chissà quali quantità di alcolici o dosi stratosferiche di droga.
Mi chiedo in quali condizioni vivano durante la giornata. Quasi certamente trascorreranno ore elemosinando in giro, o rubando, o lavorando clandestinamente. Vivranno in una sorta di letamaio, magari in dieci in una topaia di pochi metri quadrati. Una vita precaria e di stenti, nella quale posso presumere che l’unico momento esaltante coincida con uno stato mentale alterato da alcol e droga. O magari con una bella scazzottata tra bande rivali o con un passante innocente, così, tanto per mostrare un presunto coraggio o semplicemente per trascorre alcune ore rapiti dall’euforia artificiale.
Wow, che grandi aspirazioni nella loro vita. Non mirano a farsi una famiglia, comprare una bella casa, una macchina, una carriera in costante ascesa. Vacanze in posti esotici, la cura del proprio fisico, accrescere la propria cultura. Cose normali di un vivere già scritto ma sicuro. Il presente sereno e il futuro in tasca, come il biglietto della spesa. Per loro, tutto nel cesso. Lo stesso luogo nel quale amano sguazzare, sommersi da una valanga di merda.
Procedo. Spalle contratte, tensione alle stelle.
Non mi ricordavo fosse così imboscato, il pub. Sarà la strizza che mi sta prendendo che mi fa mutare le percezioni. E questa sera percepisco la paura in maniera decisamente più acuta, quasi incontrollabile, con un battito accelerato del cuore che proprio non riesco a riportare alla normalità. Un battito rumoroso, assordante in questa notte così stranamente silenziosa.
Sono un fifone, lo ammetto. Lo sono sempre stato. Da piccolo, con gli amici, nello sport, a scuola, con le ragazze. E da grande nel mondo del lavoro, nell’affrontare di petto le situazioni, nell'affermare con fermezza le mie idee. Mai fatto, sempre preferito defilarmi, tirarmi indietro, evitare. Costantemente attendista, passivo, inerme. Pur essendo fisicamente prestante ho sempre avuto un certo timore anche quando si rischiava lo scontro fisico. Una lite in un parcheggio, ad esempio, con un ragazzo. Lui aggressivo, voleva proprio darmele. E io che cercavo di evitare la rissa e andavo via. E poi, a casa, riflettevo e mi pentivo di non essermi difeso accettando la rissa.
Quando mi guardo allo specchio mi sento invece un leone, mi rendo conto dei muscoli che ho costruito, con duro e costante lavoro in palestra, le tante ore trascorse in sella alla bici da corsa, i chilometri macinati facendo jogging, le innumerevoli vasche in piscina. Mi guardo e mi piaccio, mi sento imbattibile. Ma di tutto questo mi dimentico quando è invece ora di ricordarsene, quando il pericolo è dietro l’angolo, quando mi si presenta faccia a faccia.
Quando deve sgorgare la reazione giusta nel momento giusto. E non succede. Affondo nel destino, affondo il libero arbitrio.
Quando vengo messo alla prova indietreggio, mi chiudo, mi si annebbia la vista, il cervello va in fumo, mi manca il fiato. E faccio sempre la scelta sbagliata. Immancabilmente. Come un codardo, coraggio zero. La conseguenza è un mangiarsi le mani, pentito, amaramente pentito di non aver agito diversamente. È ciò che capita nell'istante che segue, pochi secondi dopo l'evento. E non c'è possibilità alcuna di rimediare, la mente in tilt, il corpo congelato. Reagire ora? Troppo tardi? I secondi passano, la reazione si spegne. Immobilità. Rabbia. Frustrazione.
Cammino lungo la via, gli schiamazzi dei disgraziati che ho scavalcato sono ormai lontani, quasi impercettibili. Sento un lieve rumore, alle mie spalle. Non ho il coraggio di voltarmi, non voglio vedere. Maledetta codardia.
Un colpo secco dietro la nuca. Si annebbia tutto, vedo solo il suolo avvicinarsi al mio viso, ad una velocità impressionante.
Buio totale per qualche secondo.
Silenzio totale.
Luce e rumori tornano qualche istante dopo. Click, premuto interruttore. Intravedo delle ombre su di me. Sono percosso con calci, pugni, bastonate. Non riesco a muovermi, inchiodato al suolo, il corpo pesante attratto dall’asfalto, legato da corde invisibili che non accennano ad allentare la morsa. Sagome umane mi sovrastano e si agitano, indiavolate, possedute. Luce ad intermittenza.
Non sento più nulla, nessuna reazione. Muscoli e ossa non rispondono ai miei comandi.
Volontà azzerata. Non riesco a reagire, non voglio reagire. La paura vince.
Vorrei svenire, far cessare questa sensazione di sofferenza e impotenza.
Vorrei morire. Non c'è salvezza davanti al muro invalicabile.
Abbandono al fato.
Sono gli occhi l'unico collegamento con la vita altrui. I miei occhi che si connettono con i suoi, quelli della figura che inveisce su di me con maggiore decisione, violenza e accanimento. Occhi scuri, nerissimi spalancati. Una voragine nella cavità del bulbo. Non c'è colore, niente marrone, azzurro, bianco. Solo nero. Contatto. Entro dentro di lui, penetro le pupille, vengo inghiottito nella cavità oscura, affondo nella testa, nel cervello, nella gola, nel petto, precipito nell'addome. Ribolle rabbia, ira. C'è un frastuono assordante. Lava incandescente che sta per salire ed eruttare, sfogando all'esterno la sua irruenza, incontenibile, inarrestabile fino a quando non avrà raggiunto il suo obiettivo. Soltanto lì si raffredderà e potrà arrestarsi e solidificarsi.
Una fitta, lancinante.
Uno squarcio, un taglio preciso, netto, profondo. E’ l’unica cosa che distinguo nettamente, nel gesto, nella sensazione, nel dolore. Non ho sentito il dolore dei calci, dei pugni, delle bastonate, ma questa fitta sì, l’ho vista e sentita nitidamente.
Profondamente.
Una trasparenza assoluta.
Seduto in poltrona a guardare attentamente la scena cruciale del film. Attenzione massima, le sensazioni del protagonista provate sulla propria pelle.
Il gesto, il braccio che si alza, la lama luccicante verso il cielo, la sua discesa, in picchiata, giù verso il mio centro addominale. Con la sensazione che, una volta penetrata, sia trapassata, arrivando a toccare il suolo. Un buco profondo, nel mio corpo
La vedo e la sento, la lama.
Fredda, gelida.
Contrasta con il calore del corpo ancora vivo. Ancora vivo.
Dilania le viscere, lì, proprio nel punto più delicato e cedevole, dove può affondare senza trovare ostacoli, se non le vertebre della spina dorsale, ma solo dopo aver devastato l'addome. Gli occhi si sbarrano, fuoriescono.
Una luce accecante, un flash, un lampo, una scarica elettrica.
La lama esce dal mio corpo, le sagome umane si dileguano, svaniscono.
Chiudo gli occhi, per alcuni istanti, ma non saprei esattamente per quanto tempo. Potrebbe essere per lunghi minuti, per ore. Il tempo non è più misurabile in questo stato di semicoscienza. Provo a muovermi, ma fitte lancinanti mi suggeriscono l’immobilità. Dolore ovunque ad ogni singolo movimento. Sono solo le pupille ad avere piena mobilità. Destra, sinistra, in alto, in basso. Davanti.
Sopra di me il cielo nero, mai visto così nero. Lo intravedo tra le luci di qualche lampione che lo cela solo in parte. Lo scruto, quel nero. Infinito, senza limiti. Che altro potrei fare? Cosa devo fare? Inchiodato sul pavimento, su di un lurido marciapiede, uno di quelli che più ho odiato e temuto in vita mia. E che ora mi ha attirato e catturato nella sua trappola mortale. Che strano destino. Come se dovessi mettere alla prova gli ultimi scampi dell’istinto di sopravvivenza, alzo la nuca, fin dove riesco.
Voglio vedere.
Trovo il coraggio di vedere.
Trovo la forza per vedere.
Il ventre. Dov’è il mio ventre? E’ quella superficie totalmente ricoperta di rosso? Quel liquido dal colore così vivace che sembra ribollire, una fonte che sgorga dal mio centro vitale, bollicine rosse, rivoli rossi. Formano delle piccole cascate ai lati del busto. Ma dove va a finire tutto questo liquido? Possibile contenerne così tanto all’interno di un corpo?
Mi verrebbe da raccoglierlo e pesarlo. Così, tanto per sapere quanto liquido rosso contiene il mio corpo. Non sono preoccupato, sono rilassato. Sto delirando? Sono morto? Dolori improvvisi mi forniscono la risposta: sono vivo e vegeto, le fitte sono ulteriori coltellate in pancia, nella schiena.
Dovrei lottare. Per cosa? Per sopravvivere, è ovvio. Ma come? Provo ad emettere suoni con la bocca, escono solo rantoli. Non ho fiato, le parole non sgorgano con la stessa intensità del sangue. No. Non sgorgano affatto.
Mi sovviene che è da almeno due settimane che non faccio jogging. Deve essere per quel motivo che non riesco a parlare, ad urlare. Guarda un po’ come va la vita, anche in queste situazioni ti mangi le mani, ti penti di non aver fatto certe cose. O di averle fatte. Mi pento di essermi addentrato da solo in questo vicolo scuro. Mi pento di non essermi allenato per così tanti giorni e se l’avessi fatto forse ora i miei polmoni avrebbero avuto l’elasticità necessaria per pompare aria, farla salire in gola ed emettere qualche suono. O per reagire all'aggressione, difendendomi o scappando a gambe levate.
Pentimento.
Mi pento. Di tutto. Ma forse sarà l’ultima volta. Sto perdendo troppo sangue, un’emorragia che non riesco a fermare. Un'intera vita che abbandona il mio corpo e io non ho argini per contenere la fuga, l'esodo che lascia dietro di sé desolazione e morte.
Abbandono. Sto per abbandonare tutto quello che ho vissuto sino ad ora. E non faccio nulla per aggrapparmi alla vita. Non posso, non voglio. Destino, libero arbitrio. Il sangue che fuoriesce, svuoto il contenitore della mia esistenza per riempirlo quando ogni singola goccia sarà evasa, con nuova linfa, nuovo sangue, nuova vita. Voglio cancellare tutto, i sensi di colpa, i pentimenti, le mancate occasioni, il vuoto del mio vivere.
Gli arti sono immobilizzati. Non riesco a chiamare aiuto.
Sono spacciato.
Cosa si deve fare in questi casi?
Lottare fino alla fine?
Come?
Lasciarsi andare in attesa che sopraggiunga la morte?
Da questo incubo ne esco solo con la fine di tutto, con il cessare del battere del mio cuore?
Non posso morire subito e mi tolgo il fastidio?
Devo per forza soffrire a tal punto?
Dov’è l’interruttore per fermare la macchina della vita?
Ma voglio davvero morire?
Desidero realmente porre fine a tutto questo, lasciare andare la vita e abbracciare la morte?
Ho qualche rimpianto prima di morire?
Ho fatto tutto quello che dovevo fare?
Banale dire che in questi istanti le domande siano le classiche di una vita giunta all'epilogo. Scontato, come i pensieri, i ricordi. Una vita che ti passa davanti in pochi minuti, un film proiettato alla velocità della luce. Fotogrammi dei momenti memorabili, belli e brutti. Le grandi gioie, i grandi dolori. Ma anche episodi trascurabili. Perché riemergono proprio ora? Sono condizionato dai racconti e dai film che immancabilmente mostrano il flashback di un individuo agonizzante a fine corsa?
Mai venuti a galla durante la vita di tutti i giorni, questi eventi accaduti 20 anni fa. Non li ricordavo proprio. Eppure riaffiorano, senza la mia volontà. I pensieri corrono da soli, non posso controllarli, pilotarli, guidarli. Il regista non sono io. Deve essere il regista dell’aldilà, che ti concede un ultimo ripasso prima del trapasso.
Non sento il mio corpo, ma le immagini sono nitide. È stato allestito un grande schermo, proprio davanti ai miei occhi. Tutto a colori, addirittura con vista tridimensionale. Potrei toccare le sagome, se solo potessi muovere gli arti. Ma non posso. Sono solo spettatore della mia vita che scorre davanti a me.
Vorrei aggrapparmi ad ogni episodio, anche al più doloroso.
La morte di mia madre, la più grande delusione d’amore, l’incidente in macchina nel quale ho rischiato di lasciarci le penne ma dal quale fortunatamente ne sono uscito quasi illeso. O sfortunatamente. Chissà come sarebbe stato morire in quell’incidente: avrei sofferto allo stesso modo o sarebbe stato tutto più rapido e indolore? Sarei morto sul colpo? Una botta e zac! Tutto finito…
E invece sono ancora qua. E’ ancora tutto buio, le solite luci fioche dei lampioni, le immagini della mia esistenza. Che si fanno via via sbiadite, fino a sparire. Tra le ultime, l’immagine di Eleonora, la donna alla quale avrei voluto tante volte dichiarare il mio amore, ma che per quella maledetta timidezza non ho mai fatto. Altro pentimento.
Compaiono solo delle ombre, che vanno e vengono. Come fumo, come nuvole viste dall’aereo. Un vento dolce e delicato, leggere folate. Sento l’aria sul viso e nelle orecchie. L’unica sensazione che riesco a percepire, perché i rumori intorno sono spariti. Sono totalmente sordo.
L’aria si quieta, silenzio totale, nessuna sensazione, nessun dolore, nessun movimento, nessuna immagine. Buio e luce ad intermittenza, prima veloce, poi rallentata, fino a pulsazioni sempre più lente. La luce si spegne, il buio vince. Tutto buio, tutto fermo. Tirare il freno, la corsa è finita. Un’altra vita si spegne, ma questa volta è il mio turno. La prossima fermata è la mia. Devo scendere dal treno della vita. Un passo e tutto è finito. Sono morto.
I pass the houses of the dead
They're calling me to join their group
But I stagger on instead
Dear God, Sweet God
Protect me from the truth
I'm dead but I don't know it
(He's dead He's dead)
Please don't tell me so
Let me, let me go
(He's dead He's dead He's dead)
I don't know it
(He's dead He's dead He's dead)
I didn't know
(He's dead He's dead He's dead)
I didn't know it
(He's dead He's dead He's dead)
How would be so cruel to tell me so?
(You're dead!)
When will I end this bitter game?
When will I end this cruel charade?
Ho attraversato le case del morto
Mi stanno chiamando per unirmi al loro gruppo
Ma barcollo sul posto
Caro Dio, dolce Dio
Proteggimi dalla Verità
Sono morto ma non lo so
(lui è morto, è morto)
Per favore non dirmi questo
Lasciami, lasciami andare
(è morto, è morto, è morto)
Non lo so
(è morto, è morto, è morto)
Non sapevo
(è morto, è morto, è morto)
Come puoi essere così crudele da dirmi questo?
(sei morto!)
I'm dead (and I don't know it) – Randy Newmann
Disteso, il corpo supino. Sollevo il busto, mi siedo. Uno sguardo a ciò che mi circonda: il vuoto, il nulla. Mi alzo in piedi, senza fatica. Muscoli rilassati, nessuna tensione, nessuno sforzo per raggiungere la posizione eretta.
Vengo attirato verso l'alto, come se fossi legato ad un filo invisibile. Corde senza consistenza, prive di materia, ma capaci di sollevare un corpo pesante. Corde che non lasciano segni sulla pelle. Penetrano, affondano, incidono indelebilmente il loro messaggio di conquista e costrizione senza mostrare ferite evidenti. Fa più male ciò che non si vede. La vera forza si cela in ciò che è invisibile e percettibile solo ai sensi più acuti.
Levitazione. Piedi che prendono le distanze dal terreno, prendono il volo. Su, più in alto. Osservo gli oggetti che restano a terra ridursi di consistenza e svanire, le persone perdere il proprio ego e divenire tutti uguali a distanza. Si annullano le differenze, da un’ottica assai lontana.
Sto abbandonato ciò che conosco, che ho sempre conosciuto. O che ho creduto di conoscere. Ho paura. La vertigine per l'altezza, il timore di cadere giù e sfracellarmi al suolo. Non ci sono appigli, non posso aggrapparmi a nulla. Solo avere fiducia. Ma la paura prevale. Paura di perdere contatto con le cose e le persone a cui sono attaccato.
Paura di perdere la vita.
Foschia, nebbia, nuvole. Perdita del senso della vista, dopo quella degli altri sensi. Non vedo nulla, tutto è grigio, poi bianco. Un bianco accecante, occhi ben aperti eppure non vedo nulla. Lunghi attimi nei quali cambia lentamente la mia coscienza, il mio “sentire”.
L'angoscia evapora tra le nubi, il bagliore mi risveglia.
La nebbia si dirada, sprazzi di azzurro affiorano.
Si fa spazio il colore. L'azzurro che vince sul bianco. Il bianco col suo nulla, la sua angoscia, la sua incertezza, il suo impedirmi di vedere oltre, tanto è accecante.
Posso osservare solo dentro di me. L'ho fatto. Mi sono visto, non mi sono piaciuto. Evito di osservare ancora, solo bruttezze, solo rabbia e frustrazione.
Sto salendo sempre più in alto, lascio me stesso tra le nuvole, imprigionato tra esse. Mi sto liberando, mi sto spogliando. Lascio le nuvole sotto i miei piedi, salgo.
Nudo, totalmente esposto e indifeso.
Il cielo azzurro, di un azzurro intenso, nitido. Potrei nuotarci. Lo faccio. Nessuna resistenza. L'aria è impalpabile, il mio corpo si muove in totale libertà. Nessuna corda. Mi godo il fluttuare leggiadro, muscoli rilassati, sforzo azzerato.
Stop all'ascesa, sono giunto alla meta. Mi guardo attorno, solo azzurro, un colore immenso, infinito, riposante dopo la spossante ascesa liberatoria. Il bianco delle nuvole sta là sotto, lontano. Movimenti leggeri, nessuna costrizione, nessuna ansia, nessun attaccamento. Non c'è nulla a cui aggrapparsi, quassù.
Mente libera, corpo libero, spirito libero.
Sono solo, ma sono con il Tutto. Con l'Universo intero. Io SONO l'Universo. Le uniche sensazioni fisiche risiedono nel centro del mio petto e dell'addome. Calore intenso che deve trovare sfogo, deve liberarsi, espandersi.
Il cuore, il ventre.
L'Amore, la Vita.
L'amore per la vita. Prendo e do. Ricevo e restituisco. Sorrido. Alla Vita, all'Amore. Questo è il mio posto, sono morto, sono rinato. Forse prima non ero mai nato, o forse era necessario vivere senza coscienza e morire, per cominciare davvero a vivere...
Comincia così la mia vita da morto...
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UN PASSO DALLA MORTE di Christian Amadeo - Editore in versione e-book da Lettere Animate -
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Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.