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" FUGA NELLA FOLLIA " di Adriano Condrò

"Sono seduto sospeso nel vuoto, forse saranno un centinaio di metri, mi fanno paura, ma ho imparato che la paura si combatte contando fino a tre e chiudendo gli occhi..."

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BIOGRAFIA AUTORE

Condrò Adriano, nato in Liguria nel '79, da sempre coltiva il desiderio e la volontà di mettere nero su bianco la sua fantasia. Si trasferisce per motivi di lavoro in diverse regioni italiane, dalla Puglia alla Valle d'Aosta passando per Toscana e Piemonte.
Sistematosi in Veneto, nella marca trevigiana, ricomincia a tirare fuori dal cassetto quei desideri di scrittura e tra mille indecisioni, tipiche di chi fa per la prima volta una cosa, riesce a scrivere “Fuga nella follia”.
Il racconto viene considerato da tante persone, come una stesura controcorrente, senza capitoli, e con una fluidità fuori dal comune; allo stesso modo il lettore, solo alla fine delle ultime pagine, capisce il senso moralistico di tutta l'opera e solo allora “apre gli occhi” su tutto ciò che ha letto.
Adriano è sposato con Roberta e spera di diventare presto padre, perché negli occhi di un bambino c'è tutta l'essenza della nostra esistenza.

PRESENTAZIONE

La storia di un ragazzo che commette una sciocchezza, una grave sciocchezza! E che non vuole avere responsabilità. La decisione di fingersi pazzo, la scoperta di riuscirci fin troppo bene, la trappola che pian piano lo avvolge facendolo diventare matto e la consapevolezza finale che forse la pazzia è una malattia molto più diffusa di quello che si pensi.
Sono tutti ingredienti, uniti a una forte dose di comicità relativa alle azioni che il protagonista intraprende per convincere la “gente” della sua pazzia, che compongono questo libro incentrato sul valore della società attuale, pronta a non perdonare per un errore commesso solo per il semplice fatto che : “ Hanno detto alla televisione che...” oppure “tizio e caio hanno detto che...”
Un emarginazione dovuta ai pregiudizi che porta spesso una persona a scelte che non puo coltivare per molto tempo senza subirne le conseguenze.
L'autore ha incentrato il racconto in prima persona per poter descrivere meglio i propri ragionamenti e le proprie sensazioni, ed è proprio nel finale che questa soluzione narrativa esprime il meglio di sé convincendo se stesso, che seppur evidente al mondo che ormai la sua follia è arrivata a livelli insormontabili, lui sia l'unico ad essere coerente in un folle mondo.

* * * 

Buona lettura...

FUGA NELLA FOLLIA

Mi presento: mi chiamo Alex Mario Calledio e di professione posso dire di fare il pazzo.

Si! Lo so, può sembrare un'affermazione ridicola, ma del resto è la pura e semplice verità senza condimenti dettati dalla ragione o dai sentimenti.
Prima che mi consideriate veramente un malato di mente è giusto, però, specificare una cosa: faccio solo finta di essere pazzo in realtà non lo sono...
Ovviamente mi risponderete che nessun pazzo ammette di esserlo e che quindi la mia dichiarazione rientra nell'ordinaria follia. Beh, forse è meglio che vi spieghi cosa mi ha portato a comportarmi cosi, ingannando tutti sulla mia capacità mentale...
Era una tranquilla notte di mezza estate, forse era il mese di Dicembre, una serata come tante, un sabato sera.
Era solito per la mia compagnia andare a ballare in discoteca dopo avere trascorso la serata in un pub vicino casa.
Mi ricordo ancora ora, mia madre che quel 12 Dicembre mi disse di stare attento e di andare piano con la macchina. Lo diceva tutte le volte che uscivo ed ogni volta sbuffavo e ripensavo dentro di me: «Che palle! Ho 24 anni...».
Ma quella sera aveva ragione a preoccuparsi.
In macchina avevo due amici Teo e Davide e al pub Mirage avevamo bevuto un pochino; niente di grave, lo facevamo sempre. Era uno dei vizi che da giovane è difficile dominare; è uno di quei vizi che ora mi rendo conto, può costare molto caro.
La discoteca che avevamo scelto per quella sera si chiamava Atlanta ed era la prima volta che ci andavamo, era la serata dell'inaugurazione.
Mi ricordo la fila di gente che si scalmanava all'ingresso e i buttafuori che facevano una selezione severa. Chi era ubriaco o «fatto» non entrava.
Siamo stati veramente in gamba a nascondere le nostre 4 birre grandi a testa.
Nessuno si accorse di niente.
La discoteca offriva un ambiente esotico e la musica era maledettamente bella, di quelle che ti portano via con il pensiero e che ti portano a ballare fino allo sfinimento. Là dentro ci stavamo divertendo un casino.
Avevamo conosciuto anche due ragazze che arrivavano da Vienna. Mi sono domandato cosa mai ci facessero due belle ragazze come loro in una discoteca appena aperta nell'hinterland milanese, ma non ho mai avuto risposta; quelle ragazze non ci sono più...
Eh si! La vita è assai crudele con gli angeli... Ed io quella maledetta sera mi ero trasformato in un diavolo, in un fottutissimo uomo ubriaco.
Le prime due consumazioni erano gratuite e sia io che i miei amici non ci siamo fatti pregare; abbiamo preso due cocktail che definirli alcool puro sarebbe stato un diminutivo. Erano davvero forti, bruciava la gola, lo stomaco, e per un attimo mi è sembrato di perdere la forza nelle gambe.
Le ragazze ormai si aggregarono a noi, anche loro non si risparmiavano nel bere. Mi sembravano senza fondo. Non potevo sopportare che una ragazza bevesse più di me.
Fatto sta che alla fine della serata, alle quattro del mattino avevamo consumato la bellezza di cinque drink apocalittici a testa. Ero completamente fuori di testa.
Ridevo mentre guardavo Sonia e Rachel, che erano decisamente collassate sui divanetti. Avevo vinto io!

Anche Teo e Davide mostravano segni di cedimento, ma con una buona dose di coraggio mi ricordo che riuscimmo a uscire da quel luogo che ormai distinguevo a fatica.
Le due ragazze con un filo di voce mi dissero che volevano venire a dormire da noi.
Che situazione di merda! Due gnocche da paura e un’ubriacatura da coma etilico.
Pensai all'assurdità di portarle a casa, ma poco dopo mi resi conto che mia madre mi avrebbe chiuso fuori.
«Ok, venite pure... al massimo dormiamo in macchina fino all'alba...».
Questa fu la mia decisione senza senso, ma in quel momento non avevo né la voglia né la capacità di ragionare.
Non trovavo la macchina ma Teo nel suo mondo fantastico mi disse che eravamo nel parcheggio sbagliato, la macchina era parcheggiata nel retro del locale.
Aveva ragione, i suoi sogni funzionavano meglio delle sue gambe, lo sorreggevo alla mia destra mentre a sinistra trascinavo Rachel.
Davide e Sonia si sostenevano a vicenda.
Avevo anche la forza di sorridere e pensai a quanto fossimo ridicoli nel cercare di entrare in macchina dal bagagliaio, non chiedetemene il motivo, non lo so... cavoli! Eravamo ubriachi come delle spugne.
Rachel e Sonia rimasero dietro con Davide mentre Teo trovò posto sdraiandosi di traverso nel sedile davanti, gli tirai un cazzotto nei fianchi per farlo spostare.
Riuscii a farmi strada per raggiungere il posto di guida, ma dopo essermi reso conto che ero un perfetto deficiente decisi di uscire dal lunotto e rientrare dalla normalissima portiera.
«Noooo! Ma cosa hai fatto? Testa di cazzo... Dovevi entrare dal bagagliaio come tutti noi... Sei proprio un coglione!» mi disse Teo mentre mi guardava con gli occhi assenti di un pipistrello.
Lo mandai al diavolo e chiusi la portiera. Mi ricordo che in breve tempo l'aria in macchina si saturò di vapori di alcool; era incredibile quanto cavolo avessimo bevuto.
Adesso veniva il bello: come arriviamo a casa? E sopratutto quale casa? Andiamo da Teo o da Davide?
Beh, in un barlume di lucidità che ogni tanto affiorava in testa, mi ricordai che Davide viveva solo...
La risposta venne da sé: Tutti a casa di Davide, stanotte si tromba!!!!
 

Mi ricordai che avevo aperto la macchina in qualche modo, quindi le chiavi le dovevo avere in tasca, frugai bene e rimediai un accendino e un preservativo, ma delle chiavi nessuna ombra.
«Ragazzi! Chi ha preso le chiavi? Dai, su... basta scherzare...» dissi mentre mi giravo e costatavo che ormai dormivano già tutti.
«Cazzo! E ora cosa faccio?» decisi di dimenarmi un po' per frugare nelle tasche di tutti, ma la mia ricerca diede degli infruttuosi risultati.
Mentre controllavo Rachel, mi accorsi che aveva un seno triplo. Mi strofinai gli occhi pensando che era impossibile, riguardai e costatai che effettivamente aveva tre tette. «Ok! Sono completamente fuori! Adesso ho gli alieni in macchina...» mi rigirai verso il volante ma poi il fantasma di un ragionamento mi rimbalzò in testa facendosi strada tra i vapori dell'assurdità: «Il mio portachiavi!».
Mi voltai e senza tanti complimenti infilai le mani nella scollatura di Rachel.
Tirai fuori le chiavi della macchina. Il portachiavi era una di quelle palle di peluche grandi come una mela.
«Vaffanculo Rachel!» dissi con soddisfazione.
Feci una certa fatica a inserire la chiave nel cruscotto e feci un salto quando la radio si accese a tutto volume, tirai un pugno fortissimo sul povero apparecchio che si spense subito.
Il motore si avviò e fu solo in quel momento che pensai: «Ma se rimango qui? Se dormiamo e poi domattina riporto tutti a casa?» Mi voltai a guardare Rachel e Sonia, mi rigirai e dissi ad alta voce «Eh no! Ogni lasciata è persa Alex! Andiamo a casa di Davide!»
Il parcheggio era ormai deserto, la discoteca aveva chiuso ormai da quasi un'ora. La strada era semi-deserta e me ne fregai del timore della Polizia, me ne fregai di tutto!
 

Decisi di prendere stradine di campagna per evitare posti di blocco, «Tanto cosa vuoi succeda?» pensai mentre ingranai la prima e mi avviai verso la strada provinciale.
«Adesso giro alla prima a destra e m'infilo tra le campagne, se non ce la faccio, mi fermo e buonanotte!» era la mia giustificazione per quell'azzardo.
All'uscita centrai in pieno un birillo che il personale aveva messo per dirigere il traffico all'uscita, non ci feci caso, tanto non c'era nessuno, pensavo solamente che dovessi andare piano.
Percorsi circa 200 metri sulla provinciale e poi come promesso, svoltai in una stradina di campagna, non feci caso ai cartelli; era la prima volta che andavo da quelle parti.
Non mi ero accorto che era un senso vietato.
La strada era stretta e senza illuminazione, pensai che fosse un'ottima idea usare gli abbagliati.
Guidavo con la testa praticamente sul volante e m'incazzai quando mi ritrovai in un banco di nebbia.
Mi stavo innervosendo, oltre al mio tasso alcolemico dovevo fare i conti con la nebbia.
Ero un pazzo a guidare in quello stato ma ero ancora più folle a guidare in quello stato nella nebbia. Pensai che fosse buona cosa e giusta togliere gli abbaglianti, mi davano fastidio e inserii i fendinebbia.
Non funzionavano, o almeno, credo che non funzionassero.
La stradina era piena di curve e aveva due canali per l'acqua, sia a destra sia a sinistra.
«Cazzo! Devo stare attento, se finisco dentro quel fosso, neanche lo spirito santo mi salva dalle sberle di papà...».
La mia velocità di crociera sfiorava i venti chilometri orari e tenevo la testa fuori dal finestrino per vedere meglio la linea bianca che a sinistra demarcava la fine della carreggiata.
Poi... Mentre facevo una curva, mi ricordo una luce davanti, un flash accecante! La mia portiera si aprì e scivolai nel canale, un rumore assordante mi spinse a chiudere gli occhi mentre cadevo per il piccolo dirupo.

Quella luce che avevo visto con la coda dell'occhio era una macchina a tutta velocità che percorreva quella stradina sicura di non trovarsi nessuno davanti.
Mi rialzai ma fu proprio vedendo le fiamme e le due macchina completamente accartocciate che persi i sensi.
Meno male che il canale era in secca.
Il risveglio in ospedale fu dolorante, sentivo le gambe indolenzite e soffrivo di male atroce alla caviglia.
Mia madre era accanto a me e appena vide i miei occhi aprirsi esclamò: «Alex, Alex, figlio mio come stai? Come ti senti?»
Mi abbracciò e nel muovermi il dolore al piede aumentò.
«Che cosa è successo?» chiesi parlando con voce esausta, ma lei rispose di non preoccuparmi.
Era felice che fossi vivo.
Vidi che nella stanza c'era anche papà, che aveva un'espressione molto diversa da mamma, era triste e sconsolato.
Mi voltai e notai che c'erano due carabinieri che mi osservavano, uno dei due poteva essere mio nonno.
Mi spaventai, chiesi con voce più sicura «Cosa è successo? Dove sono?»
Mia madre guardò l'ufficiale dell'arma e mi rispose che non era successo niente. Dovevo riposare!
Secondo lei io dovevo riposare! Ero in un letto di ospedale con due carabinieri che mi guardavano e secondo lei io dovevo riposare...
«Mamma! Sto bene, dove sono? Mi spieghi cosa è successo?»
«Hai avuto un incidente stanotte, e grazie a dio sei salvo...» rispose angosciata.
Mi tornò in mente tutto ciò che era successo la notte, realizzai subito la discoteca, Teo e Davide e le due ragazze austriache, poi mi ricordai il flash davanti a me e la mia portiera che si apriva.
Poi l'ultima immagine: due macchine accartocciate.
Mi lasciai andare sul letto «Cazzo! maledizione...» esclamai mentre mi rilassavo facendo sopraggiungere la disperazione.
«Mamma! Come stanno gli altri? Si sono fatti male? C'erano due ragazze con noi...»
Chiesi sperando che anche loro stessero bene anche loro.
Ma mamma si mise a piangere e iniziò a scuotere la testa.
Mi lasciai prendere dal panico, compresi che era successo qualcosa di grave.
«Mamma! Come sta Teo? E Davide? Ti prego dimmelo...»
Il carabiniere anziano prese la parola e mi voltai verso di lui «Ragazzo, mi dispiace, ma i tuoi amici sono morti nell'impatto con l'altra macchina...».
Rimasi congelato a guardare l'espressione del militare, riguardai mia madre che era abbracciata da mio padre.
«Non è possibile... Non è possibile...» iniziai a urlare mentre alcuni infermieri mi presero per le braccia cercando di tenermi fermo. Uno di loro ordinò subito un sedativo.
«No! Mi calmo... Niente sedativo... Vi prego...» dissi cercando di ritrovare la calma...
L'infermiere vide nelle mie parole un sangue freddo ritrovato. Fece cenno al collega di mettere via la siringa e tornarono alle loro incombenze.
Tirai un lungo respiro e mi abbandonai al letto.
«Cosa è successo? Ero ubriaco...» dichiarai al militare che mi osservava «Lo sappiamo, ragazzo, lo sappiamo! Avevi un tasso alcolico quattro volte superiore al limite, anche la macchina che si è scontrata con voi era guidata da un ragazzo ubriaco...»
«Bella consolazione!» esclamai mentre guardavo il soffitto bianco.
«Si, però c'è un problema più grave: tu eri contromano... hai imboccato via S.Giusti contromano...»
Lo guardai e sentii la pressione salire vertiginosamente. «Mi sta dicendo che è tutta colpa mia?»
«Guardi, è meglio che glielo dico adesso: lei è l'unico sopravvissuto e risulta che stava guidando completamente ubriaco in una strada contromano.»
«L'unico sopravvissuto? Quanti erano sull'altra macchina?» chiesi mentre lo spavento si stava impadronendo di me.
«Erano in cinque: due ragazzi e tre ragazze»
Scattò la molla della coscienza. Avevo deliberatamente ucciso la bellezza di nove ragazzi, due dei quali erano miei carissimi amici.
Gli infermieri videro i miei occhi riempirsi di lacrime e subito dopo girarmi verso mia madre guardandola negli occhi; mio padre, alle sue spalle, era più triste di lei.
Dall'altro lato il carabiniere giovane mostrava il suo stato d'animo con gli occhi lucidi.
Iniziai a urlare senza senso, ricominciai a strattonare le coperte. Stavo cercando di sfogare quella disperazione che bruscamente si stava impossessando di me! Stavo impazzendo.

Gli infermieri mi fecero subito l'iniezione, uno dei due aveva tenuto nascosta dietro la schiena, la siringa per tutto il tempo. Avevano bleffato.
Il sonno prese il sopravvento e dopo alcuni minuti tornai nel regno di Morfeo.
Fu nel tardo pomeriggio che mi risvegliai per la seconda volta. I carabinieri non c'erano più e il piede mi faceva molto meno male. Mia madre non c'era e mio padre mi disse che stava nel reparto femminile, aveva avuto un mancamento ed era sotto controllo.
I Carabinieri non c'erano, ma quando chiesi di loro, mio padre mi disse che erano fuori dalla porta.
«Devo scappare dalla finestra?» chiesi bisbigliando a papà, ma lui mi tirò uno schiaffo «Cosa? Hai fatto un macello e avresti pure il coraggio di scappare? Vergognati! Ma perche? Perche? Perchè non avete dormito nel parcheggio?» urlò disperato.
I Carabinieri entrarono e videro la scena; si avvicinarono a mio padre e gli chiesero se poteva lasciarmi solo con loro per alcuni minuti. Papà si asciugò gli occhi e se ne andò.
«Ragazzo, ascolta: noi dobbiamo comunicarti lo stato di arresto, le accuse nei tuoi confronti sono di omicidio colposo aggravato dalla guida in stato d'ebrezza e dalla morte di più persone; domani mattina l'ospedale ti darà il biglietto d'uscita; dopodichè mi dispiace dirtelo ma verrai con noi al carcere di Sant'Erminio. Hai capito tutto?»
Feci un si sforzato e poi chiesi «Cosa mi succederà?»
«Beh, quello che succede a tutti, affronterai un processo e il giudice deciderà...» mi rispose l'anziano dell'Arma.
Uscendo dalla stanza i due militari lasciarono rientrare mio padre; gli spiegai cosa mi avevano detto e lui m'informò che aveva già avvisato l'avvocato di famiglia. Entro sera sarebbe venuto a farmi visita.
Infatti intorno alle nove entro nella stanza un signore sulla cinquantina che forse avevo incontrato una volta nella mia vita, era l'avvocato Minorso, aveva seguito qualunque pratica legale della famiglia.
«Ciao ragazzo! Come andiamo?» esordì l'uomo calvo mentre posava la sua valigetta di pelle sulla sedia.
«Come vuole che vada? Ho ucciso nove persone e due di loro erano dei miei carissimi amici! Secondo lei come va?» risposi a malo modo.

Mio padre mi fece cenno di stare calmo ma l'uomo disse con tono duro: «Ascoltami bene! Lo so che la situazione non è delle migliori! Ma voglio aiutarti! Se vuoi evitare il carcere, devi collaborare e mi devi raccontare tutti i fatti in modo molto dettagliato e veritiero, sono stato abbastanza chiaro? Se altrimenti vuoi fare di testa tua... Libero di farlo, io me ne vado e ci penserà il tribunale ad affidarti un avvocato d'ufficio che forse farà il minimo indispensabile... forse...»
Le sue parole erano molto severe ma rispecchiavano la realtà, non potevo sottrarmi alla legge e lui ne sapeva molto più di me. Dovevo fidarmi di lui.
Gli raccontai della sera prima in tutti i particolari ma ogni volta che scriveva qualcosa sul suo block notes alla fine, tirava una riga sopra come a dire «niente da fare»
Al termine del colloquio disse che aveva dati sufficienti e che sarebbe tornato a trovarmi nella casa circondariale.
«Mi scusi avvocato, posso farle una domanda?» azzardai mentre rimetteva la sua agenda nella valigetta.
«Dimmi.» Senza neanche guardarmi.
«Si può avvicinare per favore?» Domandai facendo segno a mio padre di allontanarsi.
«Ok,» Lasciò il suo riordino e si avvicinò con la testa
«Avvocato, cosa succederebbe se impazzissi? Cioè... se dovessero decidere che io sono incapace di intendere e di volere?» Chiesi con un filo di voce.
Lui sgranò gli occhi, rimase a guardarmi per alcuni secondi «Beh, in quel caso non potrà andare in carcere, ma dovrà subire delle cure fino a quando non sarà di nuovo .... diciamo.... In salute, ecco!»

«La ringrazio...» mi rilassai nel letto d'ospedale, la mia mente stava già accarezzando un'idea tanto stupida, ma tanto stupida che forse, poteva funzionare.
«Con permesso, adesso devo proprio lasciarvi, ho altro lavoro da sbrigare. Arrivederci ragazzo, arrivederci signor Calledio» si congedò sistemandosi il pesante cappotto.
«Cosa vuoi fare?» Chiese papà mentre il legale usciva dalla stanza.
«Niente papà.... Niente...» e mi girai dall'altro lato.
Il giorno seguente come anticipato dai carabinieri fui dimesso e sotto scorta mi portarono al carcere di Sant'Erminio. Era una situazione nuova, per quanto brutta fosse, era una situazione nuova per me.
Mi guardavo intorno come un bambino, guardavo tutto in modo scrupoloso. Non dicevo niente.
La guardia che mi ordinò di scendere dall'auto era un omone alto e robusto, mi metteva paura solo guardandomi. Immaginai cosa potesse succedere se lo avessi fatto arrabbiare.
La caviglia andava molto meglio, il male del giorno prima era dovuto solamente alla botta.
Mentre entravo nella casa circondariale, notai la macchina dei miei, erano venuti a trovarmi. Vidi mio padre che litigava con il personale di servizio al passaggio pedonale. Immaginai che non li lasciavano entrare poiché fuori orario delle visite.
Mi fecero compilare un questionario, per lo più erano domande mediche e poi mi fecero una ridicola vestizione: scarpe, uniforme grigia, cappello, spazzolino, dentifricio, saponetta, lametta, crema da barba, materasso, lenzuola, cuscino e per ultima una pesantissima coperta.
Mi diedero anche un tesserino da appendere al taschino pettorale della giubba, portava scritto il mio cognome, nome e numero identificativo.
Accompagnato in una stanza adibita a spogliatoio, mi lasciarono il tempo di cambiarmi. Requisirono tutti i miei abiti personali e li chiusero in una scatola, li avrei riavuti indietro nel momento che fossi stato scarcerato.
Mi lasciarono il mio block-notes e una matita, ma mi avvertirono che se avessi tentato qualche scherzo mi avrebbero sequestrato tutto.
 

L'attraversamento del corridoio che portava alla mia cella, la 124, fu un'esperienza terribile, tutti i detenuti mi guardavano dalla piccola fessura delle porte e qualcuno di loro rideva prendendomi in giro.
Il secondino che mi accompagnava era un uomo calmo e risoluto, mi disse di non preoccuparmi; facevano sempre così con i nuovi arrivati.
Entrando in cella scoprii che non ero solo; un uomo mingherlino e di carnagione scura riposava sulla branda inferiore del letto a castello posizionato alla parete destra.
In un piccolo separé in fondo alla cella intravidi il water e il lavandino con uno specchio metallico.
Sulla sinistra, un tavolo occupava un sacco di posto, era pieno di cose che probabilmente appartenevano al mio coinquilino.
L'uomo si alzò di scatto dalla branda e guardò il secondino «Hey capo! E questo chi è? Io voglio restare solo!» Sbraitò indicandomi con il dito indice.
«Ascoltami Daniel, sei uno dei pochi detenuti che dorme da solo, era prevedibile che alla fine ti fosse assegnato un compagno di cella, quindi non rompere le palle e stai buono!» Sentenziò la guardia senza curarsi più di tanto delle sue proteste, poi si rivolse a me «Questa è la tua cella fino a quando non sarà discussa la tua detenzione preventiva.»
Se ne andò, il mio coinquilino mi venne vicino, aveva un pizzetto lungo e mal curato, i capelli raccolti in una lunga coda. Era in canottiera e sulle braccia si notavano dei grandi tatuaggi ricoperti da una folta peluria.
Una lunga cicatrice partiva dal mento e arrivava fino all'occhio destro.
«Hey ragazzo, ascoltami bene: io non sono un tuo amico, vedi di stare al tuo posto e di non dare fastidio. Qui dentro si rispetta l'anzianità! Sei l'ultimo arrivato, quindi stai buono e non rompere i coglioni!»
Un uomo di poche parole, la sua arroganza mi fece deglutire e gli risposi con un semplice movimento del capo.
«Ah! E' ovvio, tu dormi sopra e vedi di non russare e di non rotolare come una trottola, altrimenti ti riempio di cazzotti!» Disse voltandosi e ricoricandosi sul letto.
Posai la mia vestizione sul letto mentre sentivo i suoi commenti di disappunto correlati alla mia presenza.
Si era fatto mezzogiorno e ci accompagnarono in mensa, tutti mi guardavano strano; ero l'arrivo del giorno, per tutti loro ero una persona nuova, da scoprire, da deridere o da esaltare per passare il tempo.
Si, solo per passare il tempo.
Il cibo non era male, quelle dicerie sulla situazione igienica e salutare dei carceri per ora non trovavano nessuna conferma, tutto era perfettamente a norma dalle posate di plastica alla pulizia dei locali.
Ero solo al tavolo e mentre cercavo stupidamente di sbucciare la mela acerba con il coltello di plastica, si sedette al mio fianco un uomo biondo «Hai capito perché nessuno prende la mela alla distribuzione?» fece porgendomi la sua mano, posai il coltello e gli strinsi la mano «Eh sì... Io sono Alex.»
«...Ed io sono Gianni... Come mai qui dentro?» Mi chiese mentre si presentava.
Non sapevo cosa rispondere ma alla fine decisi di seguire gli insegnamenti di mia madre: dire sempre la verità!
«Cosa ho fatto? Purtroppo ho provocato un incidente e nove persone sono morte!»
«Caspita! Mi dispiace...» mi rispose mentre metteva una mano sulla mia gamba.
Mi alzai di scatto «Scusa.... ma devo andare...»
«E dove? Prima dell'una non puoi uscire da qui... Dai siediti...» Solo allora mi resi conto che il tavolo a fianco stava ridendo a crepapelle.
«Ascolta, non lo so cosa vuoi da me, ma io non sono omosessuale e non intendo diventarlo... Intesi?» Dissi guardandolo con paura.
«Ah, ok... Peccato... Ogni volta è la stessa storia... Nessuno mi vuole...» E scoppiò a piangere buttandosi con la testa tra le braccia sul tavolo.
Mi fece pena e mi avvicinai «Dai, non fare cosi... Prima o poi verrà qualcuno che ha i tuoi stessi... Diciamo... Interessi. Non fare cosi!» Cercavo di consolarlo.
Dopo alcuni secondi mi accorsi che quel pianto si stava trasformando in una risata, si sollevò di botto, si alzo in piedi «Hey! Ragazzi, avevate ragione. Questo è proprio rincoglionito!»
Tutti scoppiarono a ridere, io rimasi a guardarlo: era tutto uno scherzo, mi stavano prendendo per il culo.
Alle due del pomeriggio mi comunicarono che avevo una visita; era mia madre insieme all'avvocato.
«Mi dica avvocato, quanto rischio?» Chiesi al termine di una lunga spiegazione sull'iter burocratico che avrei dovuto subire.
«Realisticamente parlando trenta anni... ma bisogna vedere le attenuanti, i bonus per buona condotta...».
Mi misi le mani tra i capelli e chiesi a mia madre di uscire, volevo parlare solo con quell'uomo.
«Avvocato, gliel'ho già chiesto ieri, se dovessero darmi per pazzo, cosa cambierebbe?»
Fece la stessa espressione che aveva fatto il giorno prima e poi in modo professionale mi rispose: «Se la sua pazzia non reca pericolo al prossimo, cioè se non è incline a essere violento, cade l'imputazione e ufficialmente diventa un uomo libero che deve seguire dei cicli di cura psichiatrici»
Fece una pausa e riprese «... Però non è facile 'fregare' i dottori, l'avverto che si accorgono facilmente se una persona finge... poi le cose rischiano di aggravarsi per lei!»
Gli risposi semplicemente di non preoccuparsi e che tanto ero già nella merda!
Tornando in stanza trovai il mio compagno dormire. Mi sdraiai anch’io. Dovevo inventarmi qualcosa per convincere tutti che l'incidente mi aveva sconvolto oltre ogni limite e che il rimorso mi stava facendo uscire di testa.
Sarei entrato in azione nella notte.
Aspettai circa un'ora dopo che si spensero le luci, saranno state le due di notte, scesi lentamente dal letto e mi spostai all'altezza della testa del mio compagno di cella, tirai giù il pigiama e dicendo nella mia testa «Vai!!!!» e presi a orinargli addosso.
L'uomo si svegliò di scatto, urlò di rabbia e si alzò immediatamente spingendomi verso il tavolo «Ma che cazz... piscio! Ma che cazzo ti frulla in testa? Io ti stroppio di mazzate!» Mi tirò un pugno ben assestato nello stomaco mentre sentivo le guardie arrivare di corsa, le luci si accesero e mentre il dolore risaliva dallo stomaco, lo vidi che si asciugava con un pezzo di carta igienica.
«Che succede? Cosa c'è da urlare?» Disse il secondino di turno affacciandosi dalla fessura.

«Sto stronzo mi ha pisciato in faccia! Ecco che c'è!» Rispose l'altro ancora mezzo infuriato.
Il secondino si lasciò scappare un sorriso e poi commentò «Ok, vatti a lavare! E pensa che poteva andare peggio, immagina se ti cagava in faccia...» I miei occhi s’illuminarono, mi aveva dato una nuova idea.
Il secondino mi guardò, «E per quanto riguarda a te... evita di fare altri show, potrebbero costarti cari! Chiaro?».
'Ho capito! Eccome se ho capito...' Pensai, ma rimasi impassibile a fissare il vuoto davanti a me, l'ho avevo visto fare in diversi film in cui vi erano pazzi come protagonisti.
«Hey, Daniel, ma sto cristiano sta bene? Dagli un’occhiata... Mi sembra paralizzato, non è che sta dormendo?»
Daniel uscì dal separé e mi venne vicino «Hey, brutto stronzo, sei vivo? Lo sai che lo sarai ancora per poco! Rispondi: mi senti????»
Io in perfetto stile schizofrenico voltai la testa verso di lui e con il mio sguardo assente pensai bene di sputargli in faccia.
 

Daniel fece un passo indietro e il secondino entrò nella cella, aveva sicuramente paura della reazione del mio coinquilino.
«Adesso basta ragazzo!» Mi strattonò e mi portò fuori dalla cella, mi spinse in fondo al corridoio e aprì una piccola celletta; era una cella d’isolamento.
Mi lanciò dentro e dallo spioncino mi disse «Quando ti calmerai e smetterai di fare il cretino ne riparliamo... Ok?».
Ascoltai il lungo discorso tra Daniel e la guardia: sostenevano entrambi che avevo qualche rotella fuori posto.
Dopo mezz'ora le luci si spensero.
Daniel aveva rifatto il letto e il secondino aveva procurato delle lenzuola e un cuscino pulito.
Il bagnetto della mia nuova cella era ridicolo, una turca e due pacchetti di fazzolettini come carta igienica, la pulizia di quel locale lasciava stranamente a desiderare.
Presi un fazzolettino e decisi di fare un altro esperimento: defecai e raccolsi la merda, poi tenendo il fazzoletto chiuso mi avvicinai allo spioncino della porta. La spalmai ben bene su tutte le parti mobili in modo che colasse dall'altra parte della porta. La puzza diventò nauseante.
La mattina le imprecazioni del secondino mi svegliarono di soprassalto
«Ma che cazz... Nooo... Minchia, ma questo è proprio un deficiente!».
Sentii i suoi passi allontanarsi velocemente, pensai «Bene! Fase due compiuta! Effetto sorpresa raggiunto».

* * * 

FUGA NELLA FOLLIA di Adriano Condrò -

Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

 

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