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" LE OMBRE DEL PASSATO " di Pier Luigi Cantarelli

“Sai qual’è l’unico modo per misurare quanto ami una donna? Perderla”.

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BIOGRAFIA AUTORE

Pier Luigi Cantarelli, nato a Parma dove attualmente vive. Laureato in Giurisprudenza, è stato Direttore editoriale della rivista "Mediterraneo"  (D.S.E. Editrice) oltre a essere autore di numerosi articoli e saggi in campo agro-alimentare, fra i quali "Gastronomia a Parma" (Economia Agraria - Franco Angeli Editore).

Dopo il successo del primo romanzo "I confini di seta"  (Zona Editrice, 2011)  seguito dal romanzo  "I cancelli del cielo" (Zona Editrice 2013) si ripropone con la stessa casa editrice con l'avvincente romanzo "Le ombre del passato"

PRESENTAZIONE

Caro Lettore,

Alessandro Guidorossi, esperto commissario di polizia della città di Parma, dopo anni d'amore scopre il tradimento della moglie Cristina. La sua esistenza vacilla, le certezze si sbriciolano e il dolore diventa una malattia soffocante che lo annienta.

La città, intanto, è funestata da una serie di delitti di una violenza inaudita, perpetrati grazie a un inusuale elmo dal quale, mediante un congegno a molle, partono otto coltelli affilati che provocano la morte sfigurando il viso delle vittime.

Gli omicidi hanno un connotato comune: i morti appartengono al personale medico e infermieristico della Clinica psichiatrica dell'ospedale di Parma. Il questore, nonostante sia stato messo al corrente delle difficili condizioni psicologiche in cui versa il commissario, insisterà perché sia lui a indagare, fiducioso nelle sue capacità investigative.

All'inizio Alessandro condurrà le indagini svogliatamente, ma venuto a conoscenza del coinvolgimento della moglie nella vicenda, ritroverà lo stimolo necessario per affrontare con determinazione temibili nemici che rimandano a un passato misterioso denso di drammatiche memorie.

* * *

Buona lettura...

LE OMBRE DEL PASSATO

Il silenzio

La neve cadeva insistentemente. I fiocchi bianchi si inseguivano disegnando figure immaginarie che stuzzicavano la fantasia. Un silenzio impalpabile spegneva le emozioni. Ero solo come sempre, da ormai troppo tempo. L’unica compagnia erano le orme dei miei stivali, che mi seguivano in uno strano gioco ideato dalla natura. Il freddo mi lasciava indifferente, la sofferenza non mi spaventava, faceva parte integrante del mio destino. Avevo perso un amore, che costantemente riappariva nei sogni, causando dolori lancinanti. Non riuscivo a chiudere cicatrici che, come cascate, perdevano sangue. Non rimaneva che la vendetta. Presto finito il mio compito, mi sarei tolto la vita, per dimenticare. La legna che portavo sulla schiena, mi piegava, schiacciandomi a terra. Spesso mi sottoponevo a violenza, per dissolvere la rabbia, riuscivo a calmare il mio istinto, per un tempo troppo breve. Ormai ero arrivato. Aprii il lucchetto arrugginito, richiudendo la porta alle mie spalle. Dimenticando per un attimo i ricordi.
Attraversai i vecchi magazzini e raggiunsi le scale. Le salii lentamente, la zavorra che trasportavo rallentava i miei passi. Arrivai all’enorme salone, e sfilai il peso dalla schiena. Quanta fatica avevo fatto per rendere ancora vivibile il vecchio stabile diroccato. Mi ero sottoposto a un duro lavoro di ristrutturazione, anche se precario, ma bastava per le mie esigenze.
Come accadeva spesso dal nulla, l’odio che mi scorreva dentro mi scoppiò nelle vene, portandomi a cercare il piacere urtando con violenza la mano ancora ghiacciata contro il muro. Sentii un male tremendo, che bagnò il volto di lacrime che assopivano la fame di ribellione. Le dita probabilmente si erano slogate, la gioia per quel gesto senza senso generò spasmi di felicità. Soffrire mi dava piacere. Sembrava un orgasmo che allontanava pensieri cattivi. Mi avvicinai al recinto di legno. L’odore di sterco ammassato sul pagliericcio si sentiva intenso. Non mi infastidiva, per me era il fetore che tutti i giorni avevo assaporato nella vita. Osservai il mio unico amico, un enorme cinghiale nero, con cui da tempo condividevo la mia esistenza. Nessuno mi conosceva come mi conosceva lui. Lo accarezzai, sentii il pelo ispido sulla pelle della mano. Forse l’unico gesto gentile che ricordavo di riservare a un essere animato. Ormai la stanchezza si faceva sentire. Mi buttai sulla branda polverosa. Presto, troppo presto, avrei giocato con gli incubi della notte in attesa del sonno eterno.

Il pedinamento

Non sopportavo la neve in città, in particolar modo in un momento così difficile. Stavo seguendo mia moglie, la donna che amavo più di me stesso, nelle strade buie della mia città. Mi tenevo a distanza di sicurezza per non destare sospetti. Mi ero camuffato con sciarpa e cappello, ero irriconoscibile. Del resto pedinare persone, per me, non imponeva nessuno sforzo, rivestendo i panni di un commissario di polizia. Anche se capivo che la situazione che stavo vivendo aveva dei risvolti completamente diversi dalla routine che a volte la mia professione mi imponeva. Osservavo Cristina avvolta in un cappotto elegante. Il suo volto faceva spesso capolino dall’ombrello, come se fosse spaventata. Dovevo essere in servizio, ma mi ero fatto sostituire apposta. Non potevo perdermi la fine del mio amore, seduto in prima fila. Con molta attenzione mia moglie raggiunse un condominio elegante, con ampie vetrate che si specchiavano sul torrente Parma. Suonò insistentemente. Spinse il portone ed entrò furtivamente.
Mi avvicinai ai campanelli, e lessi un elenco di nomi. Trovato! Avvocato Marielli, il nuovo associato nello studio di mia moglie. Tutto diventò chiaro, il disagio impiegò un semplice istante a invadere l’anima, persi il controllo, non riuscivo a ragionare, soffrivo di un dolore incomprensibile maiprovato. Io e Cristina c’eravamo conosciuti da giovani e amati per tanti anni e tutti i nostri sentimenti svanivano davanti a uno squallido portone.
Non avrei mai pensato che toccasse a me, mi accorsi all’improvviso di come la fiducia che provavo per lei avesse nascosto le mie ingenuità. Mi sentii svenire, cercai un appoggio accasciandomi sulla neve, nella speranzadi rimanere legato alla realtà, ma l’inutile alchimia non realizzò il fine sperato.

Qualche giorno prima

Stavo seduto comodamente sulla mia poltrona capitonné in pelle bianca, a riposarmi con un ottimo bicchiere di Sagrantino di Montefalco, che mi aiutava a scordare i problemi della lunga giornata. Mia moglie bussò con forza, più volte, ed entrò nello studio con una veemenza insolita che non le apparteneva. Rimasi stupito da tanta trasporto, ma solo vederla mi riempiva il cuore di gioia. L’amavo, ci conoscevamo da troppi anni, il suo profumo per me rappresentava la felicità.

«Alessandro, sei sempre sdraiato su quella poltrona».
«Cosa stai dicendo?»
«Sei una persona mediocre, scontata, credi che una donna possa starti accanto nonostante la tua inutile rilassatezza. Io sono un avvocato, e penso di meritarmi una vita diversa, non posso limitarmi a pensare che il fine settimana tu vada allo stadio a vedere il Parma, o al massimo mi conceda una gita fuori porta. Io ho bisogno di vivere, come professionista sono impegnata tutta la settimana, nei giorni liberi ho desiderio di svagarmi in modo diverso».
«Credevo t’importasse del mio amore, Cristina, decidi e io ti seguirò».
«Non vedi, sei un vegetale privo di emozioni, come pensi di impressionare una donna?»
«Che cosa stai dicendo? Io sono pronto a venirti incontro in ogni maniera, perché ti amo, non parliamo di vegetali».
«Sei banale, mi hai stufata, lasciami andare». Incominciò a piangere in stato confusionale, e mi regalò un addio perso fra le righe. La mia primasensazione, fu di stupore e di incredulità, ma ben presto capii che qualcosa non andava. Non avevo captato nessun segnale che mi riportasse a unachiusura che sembrava non avere sbocchi. La raggiunsi dopo alcuni minuti nel letto. Stava già dormendo. La osservavo consapevole che presto avrei dimenticato il suo respiro sulla mia pelle.

La dolorosa verità

Accucciato in stato prenatale, per reggere il dolore, contro un tristecondominio cercavo nelle preghiere il miracolo di un rapido cambio di rotta da una realtà che non sarei mai riuscito ad accettare. La mente trasferiva al cuore sensazioni macabre, capaci di annientare ogni tentativo di reazione. Sentivo il gelo rinchiudere il mio corpo in una prigione di vetro da dove non sarei riuscito a fuggire. Finalmente la serratura del portone scattò. Ormai era tardi. Cristina uscì velocemente, senza nessuna precauzione.
Si era preparata alla bene e meglio. I capelli, sempre così ordinati sembravano in balia del vento. Il trucco svanito la ritraeva più giovane. Mi sembrava di percepire l’odore di quell’uomo che si divertiva a scopare mia moglie. D’improvviso, prima di aprire l’ombrello si accorse della mia presenza. Rimase immobile, nascosta dietro una maschera di ferro.

«Complimenti, Cristina, era questo il divertimento a cui ti riferivi l’altra sera. Vuoi fare la puttana. Puoi sempre cambiare lavoro, se trovi più soddisfazioni. Probabilmente come vegetale non sono in grado di regalarti sesso d’autore. È facile incolpare gli altri, delle proprie mancanze. Sei una poveraccia, hai distrutto il nostro amore per futili motivi, e pensare che credevo fosse immortale. Io ti ho protetta, difesa da tutto e da tutti, ti ho donato sentimenti veri dedicandoli solo a te, e tu per riconoscenza mi pianti un coltello
nella schiena, uccidendomi senza pietà».
Non riuscii a finire la frase, che Cristina si mise a correre senza proferire parola. La guardai convinto che i miei sogni fossero svaniti nel nulla.

Il ritorno a casa

Avevo impiegato non poco tempo a tornare a casa, la mente lavorando assiduamente mi allontanava dalla strada del ritorno, quasi avessi paura di rivederla. Barcollavo, come un ubriaco, alla ricerca di una stabilità dimenticata. Non riuscivo a credere, mi sforzavo ma non riuscivo a trovare nessuna spiegazione lecita. Non trovavo proprio il coraggio di rientrare, navigavo come un naufrago alla ricerca di uno scoglio. La bussola non segnava la rotta. Ma l’abitudine mi riportò come un cane fedele davanti a casa.
Salii le scale lentamente, i gradini ricordavano montagne insormontabili. Trovai la porta aperta, Cristina stava uscendo con un borsone.
«Alessandro, le altre cose verrò a prenderle con calma, addio uomo inutile».
Dalla mia bocca non uscì una parola. Cercai il suo braccio nel tentativo di fermarla, lei lo scansò con cattiveria, e prese la sua strada. Rimasi in ginocchio, sul pianerottolo, alla ricerca della mia vita che stava fuggendo via.

Il professore Roberto Bindani

Ero appena uscito dalla clinica, e non vedevo l’ora di chiudermi in casa, alla ricerca di calore. La neve cadeva dolcemente, ma infastidiva i miei passi. Camminavo a rilento, confuso nei miei pensieri. Pregustavo già la cena a base di crostacei che mia moglie aveva promesso di prepararmi. Oramai l’unica cosa che ci univa era la cucina, visto che l’intimità coniugale era finita da tempo. Ma lei aveva preferito starmi accanto, nonostante fosse al corrente dei miei tradimenti, forse rimaneva con me solo per comodità.
Io il sesso per molti anni l’avevo vissuto con Rosella, la mia collaboratrice. Una donna bellissima che, nonostante la sua classe, ispirava aimiei sensi una forte trasgressione. Ma purtroppo gli anni stavano passando anche per lei. Per tale motivo, mi ero deciso a lasciarla. Tutta colpadella nuova infermiera, che aveva travolto il mio istinto, negando ogni regola.
Solo vent’anni, spudorata, non conosceva limiti, assaporavo il sessocome un gioco, lasciandomi esausto ma appagato fra le sue braccia. Questa nuova opportunità mi rendeva felice, mi regalava una nuova gioventù dimenticata, che perversione poter violare un corpo così giovane senza nessuno scrupolo. Finalmente ero arrivato davanti a casa, sarebbe stata una serata tranquilla finalmente. Ne avevo bisogno. Dopo cena, mi sareiaccomodato sul divano, appisolandomi con un bicchiere di armagnac ascoltando
Bramsh.

Due ore prima

Roberto sarebbe tornato a casa presto per la cena. Molto spesso non lo vedevo neanche tornare, mi addormentavo prima. La scusa ufficiale: i suoi pazienti. La realtà: si scopava tutte le infermiere compiacenti del reparto. All’inizio ne avevo sofferto, ma poi avevo capito che era inutilepiangersi addosso. Preferivo accettare la situazione di comodo. In fondo, il sesso, non cambiava la vita, specie alla mia età. Ormai le performance tra le lenzuola erano un lontano ricordo. Mi limitavo a fare da mamma al mio immaturo marito. E nel tempo libero mi divertivo con le amiche a giocare a carte, durante lunghe merende. Dovevo incominciare a preparare la cena, Roberto non sopportava i ritardi.

Con la sua solita eleganza, mi aveva lasciato un bigliettino, indicandomi perfino il menù da preparare. Un uomo viziato, abituato a comandare, un intoppo nei suoi programmi lo rendeva nervoso, fuori dai limiti consentiti. Tirai fuori dal freezer scampi, astici e mazzancolle, e li misi a decongelare. Quanta pazienza ci voleva con un bambino, che non voleva crescere in nessun modo.

Sono finito

Non riesco più a dormire, forse non ho più speranze, senza di lei non cerco neanche di respirare la vita. Provo il desiderio di autodistruggermi. Farmi del male. Ho perso la dignità, il pigiama che porto da venti giorni puzza di piscio. La casa è peggio di un porcile. Mangio delle schifezze che spero mi portino al Creatore. Non ho voglia di vivere. Sono piantato tutto il giorno su un letto, con distese di psicofarmaci sulle coperte, a osservare la finestra, convinto che la cosa più giusta sarebbe buttarsi, consapevole di non avere la forza di sopravvivere. Sparire d’incanto, con una magia o come un incubo. Ho visto dissolversi la mia esistenza, costruita in tanti anni di condivisione. Fossati, in una sua struggente canzone, spiegava: «La costruzione di un amore è un altare di sabbia in riva al mare».
Ma io ingenuo, dopo tanto tempo insieme, credevo alle favole, aspirando all’eternità. In fondo mia moglie ormai aveva quarantadue anni, cosa cercava? La soddisfazione apparente alle sue insoddisfazioni. Io avrei voluto in ogni modo un figlio, ma a lei non interessava. Il bambino l’avrebbe legata ancora di più a me, rovinando i suoi progetti futuri.

Il suo nuovo amante, le avrebbe regalato momenti più esaltanti, quello che un vegetale non puòregalare, se non un amore semplice ma vero. Capivo solo adesso che l’avevo
amata più di me stesso, e nella vita non mi rimaneva più niente. Tutti i miei sentimenti erano per lei. Probabilmente ero sbagliato, all’antica, al giorno d’oggi tutto è diverso, mi sentivo fuori dal mondo. Cristina torna come eri, una ragazza sensibile e dolce, non uccidere tutto quello in cui ho creduto. Ti adoro. Imploravo un miracolo, masticando patatine fritte che avevo bruciato nel forno, sul letto sporco di ketchup, guardando un film che mi disorientava.
Finii la terza bottiglia di vino, mischiandolo a medicinali, ero drogato di dolore, il mio corpo non riusciva a rispondere, mi trovavo debole su un campo di battaglia, dove tutti sembravano colpirmi. Mi sentivo male, urlai il suo nome, ero troppo ubriaco, mi pisciai addosso, e tornai a cercare alcol.

L’agguato

Le venti di una triste giornata invernale. Detestavo le giornate che caratterizzavano nei mesi freddi la Pianura Padana, colorandola di grigio fumo. Erano capaci di deprimere le emozioni. Anche la neve ormai sporca, ammassata negli angoli delle strade, aggiungeva una nota stonata al panorama. Rimpiansi il mio rifugio, circondato da una natura immortale in un piccolo chalet di montagna. Spiai all’interno di una bella villetta dai mattoncini verdi, circondata da un giardinetto curatissimo. Invidiai il pollice verde della padrona di casa. Scavalcai facilmente la rete di protezione, attento che nella strada chiusa non sostasse nessuno. Esaminai attentamente l’unica luce che illuminava al piano terreno la cucina. Spiando dalla finestra, notai una donna ancora attraente, nonostante l’età, preparare la cena con molto cura. Inseguii il perimetro dell’abitazione, fino ad arrivare al confine con un vicoletto deserto, dov’erano ammassati solo sacchetti di spazzatura con colori diversi per la raccolta differenziata. Avevo passato dei giorni a osservare da lontano i movimenti nella casa, preparando un piano. Mi accorsi che in alcuni punti il prato era ancora molto bagnato, colpa delle nevicate dei giorni precedenti.

Lo sciacquio dei miei piedi, a contatto con l’erba fradicia mi infastidiva. Nonostante gli scarponi in pelle, sentii i piedi bagnarsi. Mi innervosii subito, non sopportavo contrattempi durante operazioni così delicate. Asciugai le scarpe, per evitare imprevisti.
La mia esperienza non poteva tradirmi. Mi trovavo sul retro dell’abitazione. Controllai l’allarme, per fortuna era ancora spento. Gli scuretti in legno erano aperti. Tagliai i doppi vetri, introdussi la mano, girai la maniglia ed entrai furtivamente. Lasciavo impronte dappertutto. Presi il piccolo scendiletto che si trovava in camera, e pulii alla bene e meglio gli scarponi per non far rumore. Passarono pochi minuti. Sentivo musica classica ad alto volume invadere l’ambiente. Aprii la porta lentamente, cercando di evitare rumori. Seguii il corridoio, non incontrando ostacoli. Finalmente la luce della cucina. Dalla porta in vetro soffiato, individuai la sagoma della donna. Feci un lungo respiro. Trovai la concentrazione. Afferrai con decisione la maniglia e mi buttai all’interno. La signora che spiavo da giorni rimase sorpresa, cercò un grido istintivo, ma con un movimento velocedella mano non le concessi il tempo di urlare, negandole una richiesta d’aiuto.

La colpii violentemente con un pugno, che la stese a terra. Era semi incosciente, un livido le attraversava il volto. Estrassi dalla mia piccola borsa a tracolla il nastro adesivo, che mi servì per nasconderle le labbra. Le strappai i vestiti di dosso. Mi divertii a sfilarle con delicatezza la biancheria intima, lasciandola nuda. Notai la bellezza dei suoi lineamenti e un corpo sodo e tonico nonostante l’età avanzata. Calai le braghe. Non portavo mutande, mi infastidivano. Il membro mi s’irrigidì subito. Mi misi cavalcioni
davanti a lei e senza nessun rispetto penetrai il suo corpo con estrema violenza. Continuavo a muovermi dentro di lei, sfogando la mia rabbia. Finalmente raggiunsi l’orgasmo, che dovetti trattenere per non emettere urla animalesche. Nonostante il trauma reagiva con forza, stava cercando di divincolarsi dalla mia presa colpendomi con pugni che non mi creavano nessun problema. La musica classica continuava con dolci melodie. Estrassi dalla borsa il coltello, e la colpii violentemente più volte. Il sangue si sparse
sul pavimento. La vidi spirare lentamente. Sfoggiai un sorriso amaro.

* * * 

LE OMBRE DEL PASSATO di Pier Luigi Cantarelli - Editrice Zona contemporanea -

* * * 

Caro Lettore Arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

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