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"IL CIELO SUL SOFFITTO" di Marcella Vivacqua

TRA RICORDI E UNA MESTA SOLITUDINE, LE RIFLESSIONI E I PENSIERI DI UN UOMO SU SE STESSO, SULLA VITA, SUL MONDO.

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BIOGRAFIA AUTRICE

Marcella Vivacqua, nata il 10 novembre 1955, nei suoi studi filosofici ha approfondito il rapporto fra Teologia e Filosofia. Fin da piccola coltiva l'amore per la scrittura: all'età di dieci anni, le viene pubblicato un racconto breve sul periodico "Beato Angelo". La sua prima pubblicazione " Il cielo sul soffitto".

PRESENTAZIONE

Caro Lettore,

la prima cosa che colpisce leggendo le pagine di Maria Marcella Vivacqua è la capacità dell’autrice di mettersi nei panni di un protagonista maschile, per giunta anziano e malato, pensare come lui, sentire come lui, vivere nella sua interiorità.

Provato da una vita lunga e non sempre facile, tra la guerra, le vicissitudini in famiglia, la malattia, l’an - ziano Loris si ritrova invece ancora in grado di godere dei suoi percorsi mentali e delle sue elucubrazioni sul significa - to dell’esistenza. In un epilogo che riempie di commozione e allegria, Loris riscopre la preziosità della vita, la sua gioia, la sua vivacità.

Buona lettura...

IL CIELO SUL SOFFITTO

I Capitolo

Loris Battista, bibliotecario in pensione

Arriva sempre un momento in cui si fanno i bilanci della propria esistenza. È un atto dovuto a se stessi, tanto per capire se gli innumerevoli frammenti che in essa si sono succeduti si siano perfettamente incastrati secondo il tuo volere o se, invece, l’assenza di determinati pezzi lascia presagire che questa specie di mosaico è ancora incompiuto. Per ciò che mi riguarda, uno di questi primi momenti è arrivato con irruenza all’età dei miei quasi quarant’anni. Colpa di un inevitabile inizio di andropausa? Ormoni impazziti a tal punto che ti persuadono di possedere una rinvigorita adolescenza? Forse! Ciò di cui ho memoria, è che mi sentivo pervaso da una profonda irrequietezza dell’anima, nata dall’angoscia di vivere in funzione di qualcos’altro e non per me stesso. È come se precise responsabilità, la famiglia, il lavoro, avessero precluso ogni mio desiderio: la laurea negata, la vacanza che non mi sono mai concesso, le lezioni di pianoforte che non ho mai preso. C’era sempre una vocina interna o fatti contingenti che m’indicavano ciò che era prioritario, e la mia esistenza non era inclusa! Poi certo, quella vocina interna finisce con l’avere il sopravvento rispetto ai nuovi e patetici vigori, e alle illusorie attese, anche se, quelle assenze a volte ritornano, con una più densa nostalgia. L’altro, poi, arriva quando si ha consapevolezza di essere vecchi e si è presi solo da un profondo senso di precarietà e incertezze.

Ti affiorano nuovi interrogativi e guardi a ritroso la tua vita convinto di trovare in essa le risposte, o perlomeno, un senso alle tue domande. Osservo il mondo come se fosse la prima volta che poso lo sguardo su di esso, quasi che la mia vetusta età sia ancora priva di un benché minimo di conoscenza. E, pur di non perdere quella piccola saggezza, mi convinco stupidamente che forse una diversa prospettiva acquisita negli anni, mi restituisca un’immagine nuova, qualcosa di mai visto prima. Ho un bel dire... il mondo!... Ciò che vedo è quel poco che scorgo, seduto sulla mia veranda, sotto questo immenso e meraviglioso cielo. Quest’ultimo, più di ogni altra cosa, poi, desta in me il medesimo stupore di sempre! Fin da piccolo, infatti, quando le prime luci del mattino segnavano l’inizio di un nuovo giorno, me ne stavo con il naso quasi spiaccicato ai vetri della finestra della mia camera, a osservarlo. Bastava una nuvola, o un cielo terso, o uno grigio e uggioso, perché potessi organizzare la mia giornata. Non so se è proprio il cielo che mi manca, o se invece sono le lunghe passeggiate o le corse che non potrò più farmi sotto di esso. Devo sempre percepire l’assenza di qualcosa; una mancanza che non è affievolita dal peso degli anni. Perché mi ostino a guardare il cielo, come se una rinnovata luce potesse avvolgermi e placare finalmente la mia anima da questo senso di privazione? Può forse esso colmare il mio vuoto? Darmi delle risposte? È solo lì, fermo, a destare la mia curiosità. Dovrà pur esserci per ciò un motivo se ancora oggi, appena respiro l’aria fresca del mattino, sollevo lo sguardo, ne catturo l’immagine cercando di mantenerla più a lungo possibile. Forse è solo un rito, una mia consuetudine, sì che i muscoli del collo, ormai assuefatti a questa loro leggera inclinazione, procedono da sé, senza alcuna apparente volizione.

Non so se esso stesso può causare in me tutta una serie di nessi logici o se è capace di trovare chissà quali strane corrispondenze nascoste, per poi ritornarmi sotto forma di cielo. E perché no. C’è una corrispondenza nascosta, un filo conduttore che mi riporta a esso: nonno Giulio e il mio primo aquilone! «Guarda in alto, guarda in alto» mi ripeteva intanto che la mia mano reggeva il filo. «Non stare con gli occhi bassi, abituati a guardare sempre oltre!». Ed è proprio questo limite che vorrei superare, andare oltre il cielo luminoso e scoprire se vi è vita, oltre la stessa vita, oltre questo stesso cielo. Che cosa nasconde? Forse l’ingegno di uno straordinario Architetto che mi concede di esserci ancora, di vivere nonostante tutto? Non sono capace di darmi una risposta; so solo di percepire, attraverso la sua vasta estensione, il senso dell’infinito; e so, in qualche modo, di esserne parte. Amavo giocare con l’aquilone, soprattutto quando nonno Giulio mi accompagnava. Era una persona divertente, allegra; rideva anche con lo sguardo: strizzava a tal punto i suoi piccoli e vivaci occhi cerulei, che sembravano sparirgli dal viso. Insegnava storia e filosofia al liceo classico “Bernardino Telesio” di Cosenza; e lì vi rimase fino a quando, nel 1931, rifiutò di prestare giuramento di fedeltà allo Stato fascista. Da allora, non senza incorrere in rischi, aprì, in un locale adiacente alla sua abitazione, una bottega di falegname. Era la sua seconda passione dopo la filosofia! Aveva imparato il mestiere seguendo, durante il tempo libero, un vecchio artigiano e paesano rendese. Certo non sarà stato facile per il povero nonno imbarcarsi in una simile impresa e proprio in quell’anno, quando cioè l’Europa fu raggiunta dagli effetti della crisi del ’29.

Allora non  ero ancora nato, ma ricordo che mi raccontò qualcosa... Sì, ma cosa? Brutto vecchio... cerca di ricordare! Sono appena le nove e senza raccontarti nulla come farai a trascorrere un’intera giornata? Ah!... Ecco... il “giovedì nero” e la folle corsa verso le speculazioni finanziarie che non erano, peraltro, supportate da una solida e reale economia. Povero nonno! Avrai sicuramente subito le ristrettezze imposte dalla crisi prima, e poi dalla guerra! Che dirti... nemmeno oggi si sta bene! E la guerra l’ho patita anch’io! Certo non mi sarei mai aspettato di vivere, alla luce di un nuovo millennio, le medesime penurie, portatrici non solo di mancate possibilità di sviluppo collettivo, ma anche e soprattutto di crisi di valori, inevitabili quando il diritto al lavoro sembra essere sopraffatto da contingenti logiche di mercato. I dotti dell’economia dicono che l’attuale crisi è diversa rispetta a quella del ’29; forse nella forma, ma non certo nei contenuti! Non esistono differenze quando oggi, come ieri, una moltitudine si ritrova senza lavoro! In entrambi i casi è riscontrabile un unico comune denominatore che investe i mercati, quello, cioè, atto a promuovere l’economia dei poteri forti, l’alta finanza e le sue speculazioni. Mah! Forse parlo così perché non ho soldi da “speculare”! Chi ha mai posseduto tanta ricchezza! E non desidero certo quelle forme di appiattimento collettivo: ciascuno è libero di guadagnare secondo le proprie capacità. Tuttavia quando scorgi eccessive sperequazioni sociali che hanno dato origine al nascere di sole due classi d’individui, gli emirati e i poveri, allora pensi che esista qualcosa nel sistema che non funziona. Che sarà mai? Un laissez faire senza regole e remore, il cui costrutto è la difesa degli interessi di pochi rispetto ai molti? Così, e in nome di quel liberalismo, lo Stato liberale si libera e, attratto da nuovi meccanismi finanziari, presenta alla Banca Centrale Europea, buoni del tesoro nazionali per finanziare, chi?! O cosa?! Non c’è dato sapere! 

Da allora, e grazie a questa bella trovata, siamo tutti soggetti alla scure dello spread: un orribile sconosciuto per i vecchi come me! E poi, hanno tutti la tendenza a liberarsi: le banche dal concedere i mutui; l’Europa che ha abortito il labile tentativo di scrivere una Carta Costituzionale, liberandosi in tal modo da ogni impegno politico; tutti incuranti del fatto che sacche sempre più povere, ingrassano le file del nostro tessuto sociale. Nessuno è più in grado di fare domande al mercato; nessuna offerta può, quindi, essere prodotta, in una possibile economia reale. Poco importa all’Europa delle banche, nata dalla rigidità di Maastricht, che ai giovani sia negata la possibilità di progettarsi un futuro; poco importa se le famiglie non riescono a comprare le cose necessarie per la propria sussistenza. L’importante è che i grandi investitori già ricchi di loro (e sempre ammesso che vogliano fare impresa) debbano ulteriormente arricchirsi sull’altrui flessibilità. Strano modo di distribuire ricchezze! E poi, se proprio flessibilità “ha da essere”, provate anche voi a rendervi flessibili, a governare per una sola legislatura, indi trovarvi immersi in quest’affascinante dinamismo dei mercati. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, da anni vedo circolare sempre le stesse facce, come accadeva anche nella Prima. E poi, c’è qualcosa che non capisco?! In alcuni momenti della giornata, per certe agenzie di rating le riforme, o meglio, la pressione fiscale, i tagli subiti e che gravano sulla testa dei soliti sprovveduti, sono insufficienti a farci uscire dalla crisi; in altri, quasi per miracolo, quegli stessi interventi sono in grado di trasportarci, da qui a breve, fuori dal tunnel. 

Bella moltiplicazione del pane e del pesce! Bel miracolo metropolitano! Anche i grandi investitori di un tempo sono spariti! In un tempo non troppo lontano questi ricchi signori non erano attratti solo dai grandi sistemi finanziari, dall’alta finanza; costoro avevano la capacità e il coraggio di mettere a disposizione il proprio capitale su realtà economiche, sul fare impresa; non avevano la pretesa di arricchirsi velocemente, ossia di rientrare e raddoppiare il denaro investito e magari nell’arco di un anno (ma poi, si pagano le tasse sui guadagni percepiti dai titoli? Scusate la mia ignoranza, ma penso proprio di sì; qual è se no il senso di andare alla ricerca dello scontrino sperduto se poi si lasciassero sfuggire simili introiti?). Dov’è finito quel medio o lungo termine necessario a far decollare una qualsivoglia realtà economica? Ora tutto deve scorrere velocemente: un dare e avere immediato che si quantifica in uno scambio amorevole fra ricchi. Quand’ero giovane, poco più che ventenne, già sognavo un’Europa unita: Stati membri che, seppure nelle loro diverse identità nazionali, avrebbero condiviso il desiderio di far crescere il benessere europeo sotto un unico vessillo politico e non solo finanziario. Non è solo una divisa monetaria che ci accomuna. Certo, è già qualcosa... ma è solo l’inizio e non il fine ultimo, l’unica isola sulla quale approdare. Non si possono dare aiuti agli Stati membri che stanno peggio se poi questo sistema monetario è preso da ben altri indici di riferimento; né elargire fondi per i progetti innovativi, di sviluppo, ecc.

Qual è lo scopo di tanta generosità se poi quegli stessi Stati, quei fondi che dovrebbero creare nuovi e auspicati sviluppi, sono schiacciati nella morsa di una finanza fin troppo rigida? Non basta essere, in altri termini, un buon samaritano, fare l’elemosina, per poi scoprire il giorno dopo che quel povero è sempre lì, fermo, con la stessa mano tesa. Un tempo s’identificava lo stato di salute dell’economia di un Paese attraverso il potere d’acquisto della sua divisa monetaria; i mercati erano attenti alle politiche di sviluppo economico e a quello finanziario di una nazione. È vero, essi subiscono la mutevolezza degli eventi; ma non per questo bisogna scrivere delle nuove regole tese a soddisfare solo una categoria di questo gioco delle parti. È come scrivere una commedia: esiste l’attore principale; ma nessuna trama sarebbe possibile senza le comparse! Mah!... Forse sarò un nostalgico, un vecchio ancorato al suo altrettanto vecchio mondo! Tuttavia mi chiedo: ma dove va questo mondo preoccupato di difendere l’euro dalle tempeste ormonali della Borsa senza ravvisare quanto sia diminuito il suo potere d’acquisto? E poi chi ne subisce le conseguenze? Le solite categorie: le famiglie, le classi meno abbienti, i poveri Cristi che non sanno quali “pesci prendere” per mandare avanti la loro attività. Ogni tanto fermatevi a guardare, dall’alto dei vostri grandi pensieri, cosa c’è in basso. Ah, vorrei tanto che l’Europa scoprisse l’Europa, un concetto che va ben oltre i propri orticelli nazionali. Mah! Ritorniamo al nonno, e prendete queste mie disquisizioni, come se fossero le farneticazioni di un vecchio stanco, solo e malato. Passavo molto tempo nella sua bottega, specie quando le scuole erano chiuse; ma non imparai nulla di questo vecchio e creativo mestiere. Ero solo preso dalle sue narrazioni, dal suo modo di raccontarle. Solo una volta maneggiai due legnetti, la colla e la carta: ma lo feci perché da quel momento in poi, un aquilone mi avrebbe  dato la possibilità di correre fra i campi. 

Tutto iniziò una mattina d’estate, quando, recandomi come di consueto nella sua bottega, trovai nonno intento a verniciare l’anta di un armadio. Durante il suo lavoro portava degli occhialini senza stanghette e poggiati sul naso. Guardava sempre oltre le lenti, quando lo scricchiolare delle suole sui trucioli segnava la presenza di qualcuno. Entrando salutai con un sonoro «Buongiorno nonno! che fai?». E guardandomi rispose: «Nulla, Loris. Buongiorno a te» e proseguì. «Ora faremo qualcosa di bello: te la senti di arrampicarti sull’albero?». Gli risposi immediatamente di sì. «E allora» riprese «senza farti vedere da nonna Gilda, stacca due rametti sottili ma robusti dall’ulivo nel nostro giardino». Ritornai con due rami che avevano ancora tutte le foglie. Nonna Gilda non si era nemmeno accorta della mia presenza, intenta com’era, a quell’ora del giorno, a inventarsi il pranzo di fronte al camino: durante la guerra non si hanno molte opportunità di scelta. Nonno poggiò l’anta su una vecchia sedia; poi mi fece scorticare la corteccia con un coltellino dalla lama sottile. Non appena ottenuti due legnetti puliti, me li fece sovrapporre l’un l’altro a mo’ di croce: li fermò con un fil di ferro. «Ah!» esclamò. «E ora viene il bello!». Tirò fuori da sotto il bancone un giornale e disse: «Questa è la notizia che faremo volare stamattina! Hai voglia di movimento? Eccoti servito!». Prima di lasciarmi sagomare e incollare il foglio sull’intelaiatura, lesse ad alta voce la notizia: la casa editrice Mondadori pubblicava l’aeropoema Canto eroi e macchine della guerra mussoliniana di Marinetti. Marinetti aveva inaugurato un nuovo manifesto culturale che andava sotto il nome di Futurismo, apparso sul “Figaro” di Parigi il 20 febbraio del 1909, ma il suo carattere ideologico, sprezzante del pericolo, risuonava ancora nell’Europa dilaniata da due guerre.

In quell’articolo si esaltava la guerra “sola igiene del mondo”, e la morte, “la bella morte”, affrontata per amor patrio. Era il 1942 e le mamme piangevano i figli caduti nella battaglia di El Alamein e le razioni di pane, distribuite in Italia, grazie alla tessera annonaria, erano drasticamente diminuite. Così, io e il nonno, pur non facendo ancora parte di quella cultura planetaria che l’odierno sviluppo tecnologico ci concede e nella quale le notizie volano in tempo reale, a nostro modo avevamo escogitato un metodo per “farle volare” ugualmente e, forse inconsapevolmente, svuotarle di ogni loro contenuto tragico e propagandistico: il vento porta via ogni cosa! Non avevamo Facebook, o come diavolo lo chiama mio figlio Valerio! A suo dire, sembra ci sia un luogo virtuale dove ognuno, e da ogni parte del mondo, purché “amico”, si connette con gli altrui siti di altrettanti cosiddetti “amici”. E allora si pubblica di tutto di più: dalle foto personali e non, al proprio modo di dire le cose, usando, rigorosamente, la lingua di appartenenza. Già ci si capisce poco quando si parla nei rapporti veri, fra conterranei, figuriamoci poi fra persone di nazionalità diverse e senza il valido soccorso della gestualità. È una specie di torre di Babele, dove ciascuno discorre perseguendo una particolare inclinazione, frutto di un momento fugace della propria esistenza e che vive, in tale contesto, una propria autonomia: “Connecting people” afferma mio figlio, ma cosa cavolo connette, ancora non l’ho capito!... Pagine e pagine disconnesse fra loro. Incomincio a percepire il caldo: maledetta calura di agosto! Mi piacerebbe trovarmi all’ombra della vecchia e maestosa quercia del mio giardino, ma ben quattro gradini mi separano da essa. 

Avevo trentun anni quando con Ottavia comprammo questa casa; lei ventisette, ed era al settimo mese di gravidanza del nostro primogenito, Ludovico. Era il 1965. Gli orrori della guerra erano ormai un ricordo lontano. Si respirava l’aria del cosiddetto boom economico. La casa non aveva alcunché di particolare, ma era graziosa, costruita secondo i canoni usuali del primo Novecento. Era posta su un terreno appena collinare che si affacciava su un declivio dalla vegetazione lussureggiante. Per accedere all’interno si dovevano salire quattro gradini di pietra levigata, lunghi all’incirca due metri che finivano su di un ballatoio ampio, esteso per l’intero perimetro della facciata principale. Due colonne di mattoni pieni facevano da supporto alla veranda che, al pari del tetto della casa, era coperta di tegole di argilla. Un portoncino di legno scuro e leggermente tarlato consentiva l’accesso all’abitazione. Mi avevano consegnato, all’origine, una grossa chiave di ferro lunga quindici centimetri. Sorridevo quando la tenevo in mano. La sua immagine mi ricordava un disegno che feci quand’ero ancora uno scolaretto di prima elementare. Su quel foglio bianco prendeva via via forma un uomo, o meglio, una parvenza di uomo, che indossava una lunga tunica bianca. Per me era San Pietro; ma per coloro i quali si accingevano a osservarlo, era solo un’esile figura minacciata dalla presenza di una grossa chiave. Non sapevo disegnare le mani e per giunta, capaci di reggere le chiavi! Così ne disegnai una a fianco a San Pietro, decisamente grande, eminente rispetto a esso. Appena iniziati i lavori di ristrutturazione, la chiave e il portoncino furono le prime cose a essere sostituite.

* * * 

IL CIELO SUL SOFFITTO di Marcella Vivacqua - Europa Edizioni -

Caro Lettore, 

arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

 

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