BIOGRAFIA AUTORE
Carlo Brunetti, nato a Milano nel 1970, presta servizio presso il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, come Dirigente penitenziario. Insegna diritto penitenziario ed altre materiead esso connesse presso le più prestigiose Università italiane e presso le Scuole di Formazione ed Aggiornamento del Personale dell'Amministrazione Penitenziaria.
Ha pubblicato diversi volumi scientifici e collabora con le più note riviste di settore. Cura, infine, i contenuti del portale web "Diritto & Civiltà", presente all'indirizzo www.dirittopenitenziario.it.
"Thule - Il segno del comando" è il suo esordio nella narrativa e, prima ancora di essere pubblicato, ha già catalizzato l'attenzione dei navigatori del web.
PRESENTAZIONE
Primavera 1970, Roma, Italia. Carlo Maria Ferrero, giovane direttore di istituto penitenziario, popolato da strani personaggi, Carlo scopre che all'interno della struttura si tengono culti misterici. Senza volerlo, il giovane funzionario si troverà a fare i conti con una realtà pericolosa e molto più grande di lui, ad assistere a fatti inspiegabili che, però, rivelano un legame con tanti misteri del passato: la ricerca di Agharti, Himmler, le SS, la Thule, la Golden dawn, la Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe e molto altro.
Buona lettura...
Thule - Il segno del comando
La Regina del Cielo
«A via de la Lungara ce sta ’n gradino chi nun salisce quelo nun è romano, nun è romano e né trasteverino» (Detto popolare romano e motto de “Lo scalino”, giornale dei detenuti)
Roma, 2 luglio 1970
A Roma lo aspettava il carcere: Regina Coeli. Alla fine di via della Lungara, all’alba di un giorno d’estate, non te l’aspetti un carcere. Un fiume di miele addolcisce il cielo e il portone sembra d’oro come la copertina di un libro antico, di quelli che si vedono nelle biblioteche importanti. Lo apri e ci trovi santi, eroi e i mostri che popolano gli incubi degli uomini da sempre, miniati in rosso, oro e blu. Carlo s’aspettava che fosse Sharazad ad aprirlo e non un agente di custodia con gli occhi assonnati e inquieti. Camminava lento, come da bambino quando entrava in chiesa col timore della croce troppo grande sopra l’altare ed il viso duro del Redentore che pendeva sui fedeli.
Era al suo primo giorno come nuovo direttore. Aveva voluto entrare a piedi, dando appuntamento al dott. Marchetti, il vicedirettore, nel suo ufficio. Dovette resistere alla tentazione di scappare dai corridoi che conducevano alla sua stanza per fare subito un giro tra le celle, così, ancora da uomo libero, come un quirita qualunque, per poter carpire un segreto a tradimento, un’impressione più vera, prima che le leggi, le regole, l’organizzazione, i colleghi lo imprigionassero nel ruolo che lo aspettava, ma non lo fece. Bisognava essere cauti, voleva che i suoi passi non fossero rumorosi ma pensati, studiati come quelli di un attore consumato. Regina Coeli, in quei giorni, era un teatro e non bisognava sbagliare l’entrata in scena. A metà corridoio una donna bassina con un tailleur blue su una camicetta bianca lo accolse con una voce ticchettante come i tacchi bassi che portava. “Il dott. Ferrero? Mi scusi, dottore, se non l’ho ricevuta all’entrata, ma non sapevo a che ora sarebbe arrivato e da giù mi hanno avvertito solo ora. Sono Clara, addetta alla Segreteria particolare, benvenuto a Regina Coeli”. “Grazie a lei e non si scusi assolutamente, sono io che preferivo...”. Dott. Carlo Amato Ferrero – Direttore: il suo nome campeggiava sulla porta, inciso a caratteri neri sulla targhetta d’ottone che sembrava già vecchia di decenni. “... Giù gli agenti mi hanno indicato dove andare in maniera molto precisa e avrei trovato lo stesso l’ufficio a quanto vedo, c’è già il mio nome sulla porta”.
L’odore di legno tarmato lo assalì appena aperta la porta come in chiesa; il sole entrava dritto dalla finestra che dava sul lungotevere. Attorno ad un tavolo ovale, in stile decò, stavano tre uomini; dietro, De Girolamo, il suo predecessore, stringeva la mano a Saragat in una foto di qualche anno prima. L’uomo seduto sulla sinistra si alzò pimpante e impacciato, con la fronte già madida di sudore per il gran caldo. “Dott. Ferrero, eccola finalmente: il maresciallo Demetrio Pinna, comandante del Reparto degli Agenti di Custodia, nonché uomo decorato al valor militare e cavaliere di Gran Croce e il dottor Davide Marini, medico incaricato. Quanto a me, io sono Massimo Marchetti, vicedirettore”. Marchetti asciugandosi la fronte con un fazzoletto riprese. “L’attendevamo con ansia. Vogliamo cominciare subito? Se per lei va bene lascerei al maresciallo Pinna la parola per un rapporto sulla situazione dei detenuti...”. Pinna era un uomo robusto, non alto, granitico nella sua divisa e con un volto da contadino, baffi neri e mascella solida, aveva occhi grandi e fermi, sinceri, e poi la voce: “Direttore, benvenuto tra noi. Sono sicuro che conoscerà già le caratteristiche generali di Regina Coeli ma forse le sarà d’aiuto una breve panoramica. Il carcere ospita mille e cento detenuti e come saprà ne potrebbe contenere al massimo novecento...”. Grave e profonda ma limpida, la voce di Pinna profuse la calma in Carlo, come se parlasse un amico.
“Comandante, scusi se la interrompo, ma vorrei prima fare un sopralluogo nel braccio principale, per rendermi conto della situazione e, diciamo, prendere subito confidenza, con il carcere. Ho bisogno di camminare dopo il lungo viaggio in treno”. Marchetti strinse gli occhi, Pinna proseguì, inarcando solo un sopracciglio, col mento leggermente sollevato. “Direttore, è appena cominciato il turno, ci sono le procedure della mattina in corso e gli uomini non sono pronti per una visita straordinaria del direttore. Oddio, sono tutti agenti preparati, ma non vorrei che proprio il suo primo giorno potesse crearsi una situazione di disagio, di incertezza, di tensione, che so... diciamo che non rientra nel protocollo, però...”. Pinna parlava senza tradire emozioni, sempre a suo agio. A Carlo la cosa piacque. “Comandante, non si preoccupi, non intendo interferire nel suo lavoro e sono sicuro che tutto è organizzato per il meglio. Basterà che dica ai suoi uomini di continuare ad osservare la vigilanza come al solito. Io non ho bisogno di essere accompagnato, né di essere annunciato. Posso fare il sopralluogo da solo, pochi minuti, come si fa quando si prende possesso di un appartamento nuovo, diciamo”. “Ma direttore, credo che non sia prudente comunque, mi dia qualche minuto per organizzarmi, l’accompagno io. È assai inusuale per un direttore affacciarsi da subito all’interno...”. “Caro Demetrio, credo che il direttore sappia il fatto suo e sia consapevole dei rischi e della difficoltà che pone ma credo anche che sia in suo potere sollevarla da qualsiasi responsabilità”.
Carlo si girò verso la voce che li aveva presi alla sprovvista senza accorgersi degli occhi al cielo di Pinna, – “È nostro dovere affidarci alla sua esperienza, anche se nuovo, e fare quello che chiede. Entrare in un carcere per dirigerlo non è pericoloso come entrarci da detenuti in fondo. Quindi, al bando i timori e facciamo toccare con mano al direttore l’ottimo lavoro svolto da lei e dai suoi uomini, pur nel clima difficile di questi giorni. E poi, noi tutti conosciamo il padre del dott. Ferrero, un uomo di straordinario valore, il nostro direttore è stato allevato, diciamo, in una scuderia di razza. È una garanzia, in qualche maniera, che Regina Coeli sarà ben governata”. “Direttore, ecco Monsignor Juric, cappellano del carcere di Regina Coeli, guida spirituale delle anime perse che qui cercano una nuova via, ma anche uomo d’azione, mai privo di iniziativa. Appare al posto giusto nel momento giusto, sempre”. Pinna sparò il suo giudizio con le braccia allargate come recitasse un Padre Nostro, mentre Marchetti, ridendo imbarazzato, finì per tossire e strozzarsi con la saliva per traverso. Carlo invece dovette deglutire e far sfumare via la rabbia prima di formulare qualsiasi risposta. L’ombra di suo padre lo aveva raggiunto prima di quanto pensasse… troppo presto. “Mio padre, monsignore, è un uomo molto impegnato e a dire il vero non condivide la mia scelta di lavorare in un carcere a Roma, ma sono sicuro che sarà felice di sapere che mi ha accolto un clima familiare e che sono molto soddisfatto”.
Carlo fece ricorso a tutta la diplomazia di cui era capace, la stessa che usava sin da bambino con suo padre per reprimere la sua rabbia contro quell’uomo duro e ingombrante che lo precedeva sempre ogni volta che veniva pronunciato il suo cognome. Quel nome apriva tutte le porte, come una chiave magica, ma ben presto Carlo s’era accorto di non esistere veramente. I suoi occhi, le sue mani, agli occhi degli altri erano gli occhi da implorare e le mani da stringere di suo padre, ogni soglia che varcava s’affacciava su un mondo di servilismo, timore e reverenza. Gli capitava, talvolta, di presentarsi per sbaglio come Alberto invece che Carlo. Lo aveva messo in conto, era un uomo potente l’On. Alberto Ferrero e avrebbe dovuto faticare molto per aprire le finestre e cambiare aria, far entrare la luce e dissolvere quell’ombra che lo assillava e non corrispondeva alla sua immagine. Aveva dovuto lottare per quel posto contro la volontà dell’onorevole che lo voleva in magistratura: “Un pilastro che mancava alla famiglia Ferrero”, diceva sempre. Per questo aveva scelto Roma e la direzione del carcere, studiando e vincendo il concorso da solo, sacrificando anche Gabriella e il matrimonio imminente, alla ricerca del suo mondo. Se avesse potuto l’avrebbe cambiato, il suo nome. In un nome più comune, Rossi, Bianchi, o, meglio, se avesse potuto l’avrebbe abbandonato, il cognome. Piacere, Carlo – sarebbe bastato. Sarebbe stato meraviglioso recuperare la verginità dell’anima col solo nominarsi, come le cose in natura: piacere, Carlo, uomo libero.
“Direttore, come al solito il comandante Pinna non lesina cerimonie e blandizie a Santa Romana Chiesa, molto più modestamente, presto il mio servizio a tutti coloro che cercano nel Signore la luce che altrove non hanno trovato, finendo in questo posto...”. Il monsignore aveva capelli grigi, unti con la brillantina che sfuggivano su una fronte alta, dentro una papalina; gli occhi, piccoli e ravvicinati su un viso teso, erano freddi come specchi. L’accento slavo e le labbra sottili disegnavano un ghigno inadatto alla cura delle anime; beffardo. Carlo lo fissò dritto negli occhi. Sembrava piuttosto che le anime le avesse rubate, il Monsignore, per curarle, sì, ma che qualcosa poi gli fosse sfuggito di mano come se tutte le voci raccolte nel confessionale gli fossero rimaste intrappolate nella testa, con tutti i loro conflitti, i problemi, le paure, incapaci di trovare la via della compassione e della speranza, capaci solo di accendere la cattiveria. Carlo distolse gli occhi dall’immagine luciferina che gli balenò per un istante nella mente. Juric cristallizzato in un urlo disumano, come nel quadro di Munch, sopra una miriade di mani che affogavano in un lago di sangue. Perché gli uomini scelgono vite che non gli appartengono? – si chiese Carlo. Le domande lo trascinavano spesso altrove, nel mezzo delle conversazioni, senza che però ne perdesse un dettaglio, e, quando si tacevano, lasciavano un deposito di intuizioni nei suoi pensieri.
Ne diffidava spesso, delle sue epifanie, sin da ragazzo, ma il tempo gli aveva insegnato che raramente si sbagliava e, quando accadeva, era perché non voleva vedere il male ovunque intorno a lui, non voleva crederci e si concedeva una fuga. Ricordò a se stesso la prima regola: Carlo, prima ascolta. Aveva imparato ad ascoltare le persone per indagare nella loro testa; attratto dall’intuito del male, immergeva le idee e i pensieri nel fiume di parole che ascoltava scavandoci a fondo, fino a quando era sicuro di non sbagliare, di aver colto la loro essenza per quanto possibile, il loro segreto intimo, il loro problema, la loro paura di vivere. Tranne che per suo padre. Per questo forse Alberto Ferrero gli aveva parlato sempre così poco. Di suo padre, Carlo, non aveva capito fino in fondo il vero male. Di quell’uomo aveva impressa nella memoria, costantemente, la maschera e la voce ma, di vero, di paterno, queste immagini non gli avevano mai detto nulla. Certo, nell’intuitività del saper ascoltare oltre le parole, c’erano molte controindicazioni: troppe sigarette e spesso l’ostilità delle persone. I taciturni difficilmente risultano simpatici, peggio se con occhi curiosi e discreti sanno indagare. Erano i suoi occhi che tradivano la regola del silenzio e cercavano avidi di farsi strada nelle persone senza alcuna malizia ma inquietavano ogni suo interlocutore senza che ne capisse, in fondo, il perché. Se non voleva un corpo, cosa voleva quell’uomo davvero? Solo Gabriella non aveva reagito chiudendosi il primo giorno che la vide.
Forse perché fu subito il suo corpo che lo attrasse, forse perché Gabriella amava mostrarlo e lui parlava per lei, muovendosi in maniera naturale come una foglia che cade d’autunno, lentamente. Carlo allora, guardandola, l’ascoltava e i suoi occhi erano diversi, accesi di interesse non solo di curiosità. Gabriella gli mancava, il suo corpo e il suo odore entrarono prepotenti dalla finestra della memoria fino alle sue narici. I suoi seni balenarono in un lampo davanti a lui; stretti nelle sue mani produssero un lungo sospiro, soffiato via mentre, ad occhi chiusi, Gabriella guardava al cielo e i capelli biondi ricadevano sulle spalle sciogliendosi. Scrollò la testa per azzerare le immagini e tornare al suo lavoro. “Monsignore, la ringrazio molto della comprensione; maresciallo, penso che...”. “Allora, direttore, vado a preparare i miei uomini” – lo anticipò Pinna congedandosi svelto. “Noi, dott. Marchetti, ci vediamo più tardi, alle 11.00, insieme a lei, dott. Marini, per fare il punto sulla situazione sanitaria del carcere, sia per quanto riguarda la salute fisica che quella mentale. Grazie a tutti”. I due fecero un cenno col capo, “Direttore, è stato un piacere...” – si sovrapposero in coro, interrompendosi con una smorfia...
THULE IL SEGNO DEL COMANDO di Carlo Brunetti - Rogiosi Editore
Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.