BIOGRAFIA AUTORE
Arsenio Siani nasce a Sarno (SA) il 2991982. Nel 1996 intraprende studi umanistici frequentando il Liceo Classico poi, nel 2001, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Siena, laureandosi nel 2008. Nel 2009 si converte al Buddismo aderendo all'istituto buddista italiano Soka Gakkai, con cui inizierà un percorso di autoconoscenza e di sviluppo di consapevolezza sulla vita e sull'uomo. Nel 2012 decide di dedicarsi alla scrittura e dopo circa un anno vede la luce il suo primo romanzo, "Roba degli altri mondi", primo volume della trilogia Fantasy “I Maestri”, pubblicato dalla casa editrice Officine Editoriali. Scrive anche racconti con cui partecipa a diversi concorsi letterari, ottenendo riconoscimenti e segnalazioni. Nel novembre 2013 il suo racconto "Calzini" si classifica al primo posto nella sezione “Racconti” alla decima edizione del "Cahieurs du trosky Cafè". Nel 2014 “Roba degli altri mondi” riceve la menzione d’onore da parte della giuria al concorso letterario “Penna d’autore” e nel luglio dello stesso anno la sua raccolta di racconti "Ogni cosa è connessa" viene segnalata al concorso letterario "Narrando per passione". Nel 2015 pubblica, sempre per i tipi di Officine Editoriali, “Il prezzo della conoscenza”, secondo volume della trilogia “I Maestri”. Inoltre per la Eretica edizioni pubblica la raccolta di racconti "Frammenti". Altre sue grandi passioni, il disegno e la fotografia per i quali manifesta particolare sensibilità e trasporto.
PRESENTAZIONE
Una storia scritta con delicatezza e passione. Ogni parola ha un valore inestimabile. Alessandro e Caterina si incontrano dopo due mesi di separazione. Lei vuole delle risposte: non accetta la fine della loro storia. Vuole sapere “perché”. Messo alle strette, probabilmente con la voglia di sfogarsi, Alessandro accetta di raccontarle i suoi comportamenti e le sue scelte. Un salto nel passato, tra una cena e qualcosa da bere, Alessandro si lascia andare ai ricordi, alla sua infanzia, al rapporto conflittuale con i genitori.
Due persone imperfette, con le loro debolezze, i loro sbagli e le scelte fallimentari. Tutti ingredienti che hanno influito sulla sua crescita e sul suo carattere. Lui è una persona schiva, solitaria, poco incline a socializzare. I rapporti umani non sono il suo forte. Lei è una donna solare, determinata e ama la compagnia. Due opposti. Tramite la religione, riesce a riavvicinarsi al padre, ma non è semplice. Perdonare non è facile, dopo aver lottato per anni e anni contro il male nero che lo opprime.
Buona lettura...
DUE ANIME
I Capitolo
"Sei pronto?
"No..."
"Porca miseria, Alessandro! Non ti puoi tirare indietro proprio ora. Me lo avevi promesso!"
Caterina e Alessandro erano seduti al tavolo di un bar, uno di fronte all'altro. Si erano dati appuntamento il giorno prima, Caterina gli aveva telefonato per chiedere un ultimo incontro, un ultimo aperitivo insieme, scambiarsi due parole prima di dirsi addio. Lo aveva lasciato lei, ma non riusciva a capire le motivazioni della fine della loro storia.
Sapeva che c'era qualcosa che non andava tra loro, ma non capiva cosa. Tutto ciò che aveva compreso era che Alessandro stava scappando, aveva un male di vivere che lo portava ad avere comportamenti distorti, disturbati, che avevano avuto ripercussioni devastanti sulla loro storia. Quindi lo aveva cercato per capire, trovare delle risposte che non era mai riuscita a trovare quando stavano insieme.
Erano molto diversi, Alessandro e Caterina. Si capiva già dall'abbigliamento e dall'aspetto esteriore, lui indossava una felpa col cappuccio, blue jeans e scarpe da ginnastica, portava capelli lunghi, color castano chiaro, con qualche ciuffo bianco precoce a spuntare nel mezzo della folta chioma, nonostante i suoi 30 anni, barba incolta di qualche giorno.
Aveva un'aria stanca, i suoi occhi, di color verde acqua, limpidi e penetranti, quegli stessi occhi che avevano fatto innamorare Caterina per la loro nitidezza, trasmettevano disagio e senso di inadeguatezza.
Lei invece era il suo esatto opposto, sempre attenta nell'abbigliamento e curata nell'aspetto, indossava un tailleur color viola, scarpe col tacco vertiginoso, capelli color dell'oro pettinati e profumati. Gli occhi fiammeggianti, color azzurro cielo, riflettevano il suo stato d'animo, la sua sicurezza e la sua forza che le permettevano di aggredire avidamente la vita quotidiana e di assaporare ogni attimo dell'esistenza.
La loro diversità non era sfuggita ad amici e conoscenti della coppia, che aspettavano soltanto che la loro storia giungesse all'epilogo inevitabile, una rottura cui non potevano sottrarsi in ragione dell'antiteticità dei loro caratteri. Timido e introverso lui, tormentato da qualcosa, introspettivo, intellettualoide, tendente alla tristezza e alla malinconia.
Solare ed estroversa lei, piena di voglia di vivere e di fiducia nei confronti dell'avvenire, attenta a curare gli aspetti concreti della quotidianità, il lavoro, le amicizie, i rapporti umani.
“Non siete fatti per stare insieme, lo vedi quanto siete diversi? Lascialo, che aspetti? Mandare avanti questa storia non servirà ad altro che aggiungere altra sofferenza”, ripetevano insistentemente le amiche di Caterina.
Avevano ordinato due bicchieri di prosecco, la loro bevanda preferita, e quando i due calici gli furono serviti dal cameriere Alessandro sollevò il suo , facendo intendere che voleva fare un brindisi, ma Caterina declinò l'invito e voltò la testa. “Non c'è niente da brindare” disse.
Alessandro, resosi conto di aver fatto una gaffe si strinse nelle spalle e impallidì, poi diede un sorso al bicchiere e abbassò lo sguardo a guardarsi le nocche delle mani, che teneva congiunte sulle gambe, come in un gesto di ossequio o di preghiera.
A vedere quella scena Caterina ebbe una fitta al cuore, non riusciva a rimanere indifferente dinanzi alla tenerezza che quell'immagine le procurava. Per un istante ebbe la tentazione di abbracciarlo, accarezzargli la nuca e dirgli di stare tranquillo, che andava tutto bene, c'era lei insieme a lui.
La purezza e l'innocenza di Alessandro aveva sempre fatto scattare in lei un forte istinto di protezione, era consapevole della sua vulnerabilità e aveva cercato di curarsene, ma non era servito a nulla.
“Allora? Ti decidi a parlarmi?”chiese Caterina.
“Non so se è il caso...”
“Accidenti a te! Mi dai sui nervi, non ti sei stancato di tenermi sulle spine? Basta con tutto questo mistero, con quest'aria da bello e dannato che ti sei sempre imposto! Vuoi farmi capire una buona volta?”
“Non c'è molto da capire. Tra noi non funzionava e hai giustamente deciso di mettere fine alla nostra storia. Punto...”
“Non prendermi in giro!”urlò Caterina, tirando una manata sul tavolo, “ho il diritto di sapere la verità. Sai quanto ho sofferto a causa tua? Tutto perché non hai mai voluto confidarti con me. Non mi hai mai detto niente di te, non so nulla del tuo passato, della tua storia, di ciò che ti faceva soffrire. So solo che nel nostro rapporto eri assente, sparivi per giorni, riapparivi con l'aria preoccupata e smarrita, e cercavi sempre di nascondere i tuoi pensieri e il tuo malessere fingendo di stare bene. Quanto odiavo quei sorrisini forzati e quelle chiacchiere insulse che cercavano di mascherare i tuoi veri sentimenti. E poi questa storia del Buddismo...mi trascuravi, dicevi che non potevamo vederci perché avevi delle riunioni con i tuoi compagni di fede...mi chiedevi di avere pazienza, che era l'unica cosa che ti faceva stare bene, che dava un senso alla tua vita. Non hai mai condiviso niente con me”.
“Mi dispiace...”
“Non voglio le tue scuse!” sbraitò nuovamente Caterina, e stavolta gli tirò in viso il contenuto del calice che aveva davanti. “Voglio delle spiegazioni. Altrimenti non riesco a chiudere definitivamente tra noi. Sono passati due mesi ormai, e durante questo tempo non ho fatto altro che rimuginare su noi due, sui motivi per cui sia andato tutto storto”.
Quando terminò di urlare, Caterina si voltò intorno e si rese conto che gli occhi di tutti i presenti erano fissi su di loro, alcuni ridacchiavano divertiti, altri scuotevano il capo e mormoravano frasi di rimprovero e di sdegno. Abbassò il capo per la vergogna, poi prese un fazzoletto e ripulì il viso di Alessandro.
“Scusami, ho esagerato. Ti prego, aiutami a farmene una ragione. Altrimenti non potrò ricominciare a vivere. Vuoi tenermi legata a te? Non permetti che mi metta il cuore in pace e possa guardare avanti? Sei così egoista e meschino?”
Dopo aver udito quelle parole Alessandro deglutì, poi raddrizzò la schiena in posa eretta e incrociò le braccia. Si toccò il mento con il pollice e l'indice della mano destra e fissò Caterina con aria pensierosa. “Va bene” disse infine. “Hai ragione. E' giusto che tu sappia. Volevo proteggerti nascondendoti la verità ma a quanto pare ho fatto peggio. Ti racconterò la mia storia.”
Caterina sorrise e si asciugò una lacrima che le era sfuggita, a testimoniare lo sciogliersi di una tensione che aveva accumulato per tanto tempo. Poi fissò lo sguardo su Alessandro con aria concentrata, pronta ad ascoltare le sue parole.
La storia della mia vita è segnata da un pessimo rapporto con mio padre. Sono il frutto di un matrimonio sbagliato, i miei genitori si sono conosciuti quando erano giovanissimi, mio padre aveva 26 anni e mia madre appena 13. Mio padre era ossessionato dall'idea di sposarsi, in quanto per lui era una tappa obbligatoria della vita, una consuetudine a cui tutti devono fare riferimento prima o poi. Benché troppo immaturo e irresponsabile per mandare avanti una famiglia e nonostante fosse attanagliato dai debiti a causa del fallimento di una piccola azienda che aveva amministrato per qualche anno, decise di convolare a nozze. Mio padre aveva 31 anni e mia madre 18. Lei, da ragazzina giovane e ingenua, plagiata da un uomo più grande di lui, dietro le sue insistenze aveva accettato di sposarlo, nonostante i tentativi di dissuasione di amici e parenti.
Dopo due anni nacqui io, dopo altri quattro anni mia sorella. Ricordo la mia infanzia come un vero inferno, la nostra condizione economica era disastrosa, al punto che facevamo fatica a mettere insieme il pranzo e la cena. Mio padre si rivelò un inetto e un irresponsabile, non riusciva a trovare un impiego stabile, accumulava debiti e guai a non finire. Accompagnava tutto ciò con un atteggiamento arrogante e prepotente, non ammetteva i suoi errori e perseverava nel ripeterli, inoltre, da buon maschilista vile e ipocrita, non consentiva a mia madre di trovarsi un lavoro perché, a suo dire, è l'uomo che deve portare il pane a casa, la donna deve pensare solo ad accudire il focolare domestico. Mia madre, resasi conto del grave errore che aveva commesso sposando quell'uomo, cadde ben presto in uno stato di profonda depressione, di cui risentimmo soprattutto io e mia sorella, in quanto ben presto diventò una madre violenta, sfogando spesso su di noi la sua rabbia e la sua frustrazione riempiendoci di botte.
Furono anni durissimi, se dovessi spiegarli con un'immagine sarebbe questa: io che me ne sto rannicchiato in bagno mentre verso fiumi di lacrime, la porta chiusa a chiave, mentre sento mia madre che piange o urla in un'altra stanza. Piango a dirotto, mentre mi chiedo perché mamma si comporta così, per quale motivo mi odia. Inoltre mi chiedo perché papà non c’è mai, e perché non fa nulla per aiutare mamma che sta male. Mi sento solo e impotente, cresco tra una madre malata e disperata e un padre assente.
A quel punto Alessandro si interruppe. “Ho bisogno di fumare una sigaretta. Ti va se andiamo a fare due passi e ti racconto strada facendo?”
“Eh? Oh...sì” rispose Caterina, frastornata da quel racconto, che l'aveva lasciata sbigottita e incredula. Mai avrebbe immaginato...
Prese la borsa dalla sedia e si accorse che la mano le tremava vistosamente. Era profondamente scossa dalla verità che stava scoprendo, e aveva intuito che il seguito di quella storia non preannunciava nulla di buono.
Uscirono in strada e si incamminarono verso il centro della città. Alessandro guardava dinanzi a sé evitando appositamente di incrociare lo sguardo di Caterina. Fissava il vialone del corso principale con aria fiera e decisa, mentre lei arrancava goffamente a causa delle scomode scarpe che indossava, inadatte alle passeggiate. Alessandro tirò fuori dal borsello una Winston e la accese, tirò un paio di boccate profonde e riprese a parlare.
Nonostante il male subito non ho mai odiato mia madre, ben presto capii che i suoi comportamenti erano dettati dalla sua malattia e continuai a volerle bene. Parallelamente cominciai a provare un odio feroce per mio padre, avendo individuato in lui la causa di tutti i nostri guai e delle sofferenze che stavamo provando. Cominciai a provare il desiderio di salvare mia madre, sebbene fossi ancora piccolo e impotente, ma ripetevo in modo ossessivo, quando la vedevo piangere, “mamma non preoccuparti, quando sarò grande ti porterò via da papà”.
Passarono gli anni e intravedemmo qualche barlume di speranza. Mia madre riuscì a guarire dalla depressione grazie ad un percorso di psicoterapia e al sostegno di alcuni amici di famiglia. Al contempo mi sforzai con tutto me stesso per rendere felice mia madre, tutte le mie scelte di vita erano orientate al suo benessere, decisi di continuare gli studi frequentando il liceo e mi ripromisi di iscrivermi all'Università in futuro, per far sì che mia madre fosse orgogliosa di me. Lei non aveva potuto studiare, nonostante le piacesse tantissimo, e il suo sogno era che io e mia sorella avessimo la possibilità di studiare e realizzarci nella vita.
Alessandro si interruppe di nuovo. Guardò l'orologio e gli spuntò un sorriso malinconico sulle labbra al pensiero che gli fosse stato regalato da Caterina. Era un orologio elegante, raffinato, che stonava col suo abbigliamento semplice e anonimo, ma non riusciva a fare a meno di indossarlo, gli evocava ricordi di momenti teneri e indimenticabili vissuti col grande amore della sua vita, prima che lei gli dicesse addio.
Guardò il quadrante, segnava le 20:15. “Ho fame, è ora di cena. Ti va se mangiamo una pizza?”
“Solo se offro io” rispose Caterina.
“Non se ne parla. Ti ho invitata io e offro io.”
“Facciamo così. Ognuno paga per sé e siamo tutti più contenti, ok?”
Alessandro scoppiò a ridere e si poggiò una mano sulla fronte. “Non si riesce proprio a spuntarla con te, vero? Cocciuta e testarda come sempre”.
“Spiacente di deluderti”.
“Oh, tutt'altro. E' una qualità che ti ho sempre ammirato. Vorrei avere un briciolo del tuo carattere”concluse Alessandro prendendola per mano e invitandola ad entrare nella pizzeria dinanzi a cui si erano fermati. Caterina svincolò la mano dalla presa e andò avanti. Ebbe la sensazione che la mano le bruciasse.
Furono accolti da un cameriere che gli indicò un tavolo a cui sedettero dopo essersi fatti consegnare i menù del locale. Dopo che si furono accomodati, Caterina notò le spalle ossute, il volto scavato e le braccia rinsecchite di Alessandro. “Dio come è magro”, pensò. Era dimagrito molto nell'ultimo periodo e si chiese se fosse dovuto alla fine della loro storia. Aveva sofferto così tanto da perdere l'appetito? A quel pensiero non poté fare a meno di provare un profondo senso di colpa.
Quando diventai maggiorenne mia madre si decise a lasciare mio padre, appoggiata pienamente da me e mia sorella. Ma a quel punto iniziò un nuovo incubo. Mio padre, che negli anni aveva sviluppato un attaccamento morboso per mia madre, non accettò di buon grado la separazione e cominciò ad assumere atteggiamenti patologici da persona disturbata, pedinava mia madre, la perseguitava, le telefonava ad ogni ora del giorno e della notte. In questo periodo il conflitto con mio padre esplose in modo violento e definitivo, mi sentii in dovere di difendere mia madre e mi frapposi fra loro due nei litigi e nelle discussioni. Fu un periodo di odio reciproco, mio padre mi detestava per la mia decisione di appoggiare e sostenere mia madre nella sua decisione di lasciarlo, mi accusò di avergli portato via sua moglie e di aver distrutto la sua famiglia. Allo stesso tempo il mio odio per lui era cresciuto in maniera esponenziale a causa del suo atteggiamento, che lo metteva ancora di più in cattiva luce ai miei occhi.
“Desiderate ordinare, signori?” Il cameriere li osservava dall'alto, mentre stringeva tra le mani un taccuino e una penna, pronto a raccogliere l'ordinazione.
“Ehm...io prendo una margherita con mozzarella di bufala. Ce l'avete, vero?” chiese Alessandro.
“Certo, signore. Direttamente da Aversa. Il proprietario del locale è casertano e dei suoi parenti ce la portano fresca ogni settimana.”
“Perfetto. E da bere per me una birra media. Tu che prendi, amore?”
Alessandro si morsicò la lingua. Aveva avuto un lapsus, tutto quel tempo che stava trascorrendo con Caterina lo aveva proiettato indietro con la mente, al periodo in cui stavano insieme e si era lasciato sfuggire quella parola di bocca.
Caterina non batté ciglio, sollevò gli occhi dal menù e disse al cameriere “una margherita con bufala e una birra media anche per me. Ma prima ci porti due antipasti della casa belli abbondanti.”
“Oh per me no, grazie” disse Alessandro, “ne porti uno solo per lei...”
Caterina lo fulminò con lo sguardo. “E invece prendi l'antipasto anche tu. E niente obiezioni, capito?”
“Ma che ti prende?”
“Guardati come sei ridotto. Scommetto che non stai mangiando in questo periodo. Hai intenzione di sparire, per caso?
“Cosa? Ma no...che dici?
“Scusate...allora gli antipasti sono uno o due?” chiese spazientito il cameriere, che aveva fretta di fiondarsi agli altri tavoli per raccogliere le ordinazioni dagli altri clienti che protestavano per l'attesa.
“D-due” disse Alessandro, ormai rassegnato a darla vinta al granitico carattere della sua ex compagna.
Dopo qualche anno decisi di trasferirmi e andai a vivere per conto mio per frequentare l'Università. Avevo fatto tante scelte dettate unicamente dal desiderio di fare felice mia madre quindi decisi di provare a pensare un po' a me stesso e alla mia vita. Tra mille sacrifici mi laureai ma un nuovo inferno mi attendeva. Mia madre, in un momento di debolezza dettato da difficoltà economiche causate dalla perdita del lavoro e dietro le insistenze di mio padre, che non aveva mai smesso di cercarla, decise di tornare con lui.
Ovviamente io non fui d'accordo e quando tornai a casa mi trovai davanti agli occhi una scena agghiacciante. Mia madre viveva reclusa in casa, mio padre roso dalla gelosia non le permetteva di uscire. Inoltre vivevano in condizioni terribili, non lavoravano da anni e stavano per essere sfrattati perché da mesi non pagavano l'affitto. Guardai negli occhi mia madre e riconobbi lo sguardo spento che aveva negli anni bui della depressione, così decisi di portarla via con me. Affrontai mio padre, ma le sue minacce e la sua ira non smossero la mia determinazione.
Gli antipasti erano arrivati, Caterina consumava lentamente il suo pasto, mentre Alessandro quasi non aveva toccato cibo, tanto era concentrato nel parlare e raccontare la sua storia. Ogni tanto dava uno sguardo al suo piatto ricolmo di affettati, formaggi e verdure grigliate ma poi tornava ad osservare Caterina e continuava il suo discorso. D'un tratto lei allungò il bracciò e gli infilò una forchettata di melanzane in bocca. “Fai una pausa e mangia. Per favore” disse, con gli occhi pieni di lacrime.
Alessandro masticò lentamente e inghiottì il boccone poi, dopo essersi pulito le labbra con un tovagliolo ringraziò e consumò la sua portata. “E' squisito, non trovi?” disse, quando ebbe terminato. Caterina annuì.
Passarono delle settimane e un giorno mi ritrovai mio padre fuori la porta di casa. “Sono venuto a riprendermi mia moglie” mi disse.
Gli risposi che sua moglie non c'era, anzi non c'era mai stata per lui, non era mai esistita. Mi aggredì. Io reagii. Poi scappò. Ero fuori di me dalla rabbia, se lo avessi trovato lo avrei ucciso. Decisi di recarmi in questura con mia madre per denunciarlo, ma il Commissario mi fece desistere dicendomi “è pur sempre tuo padre.”
Il giorno dopo ricevetti una telefonata, era mio padre che voleva parlarmi. Quando ci incontrammo trovai un uomo stanco e provato, mi disse che aveva dormito su una panchina. In lacrime mi chiese di perdonarlo, dicendo che si era comportato in quel modo a causa della disperazione che provava, ma quella scena non mi smosse nessun sentimento di pietà, era troppo l'odio che avevo provato per quell'uomo nel corso degli anni, così gli risposi che non lo perdonavo, volevo solo che sparisse dalla mia vita.
“Lo farò” disse, “te lo giuro, ma posso chiederti un ultimo favore? Ho fame, non mangio da ieri e non ho un soldo, potresti comprarmi una brioche al bar?”
“No, non te la compro. Non avrai niente da me. Per me puoi anche morire di fame” gli risposi.
Mio padre scoppiò in un pianto a dirotto, ora che era consapevole dell'odio profondo che suo figlio nutriva per lui, quella amara verità lo sconvolse.
Avevo il buio nell'anima, guardavo mio padre che si allontanava da me mentre stringeva la sua 24 ore che fungeva da bagaglio da viaggio e si asciugava le lacrime con un fazzolettone, ma continuavo a non provare niente, anzi, quasi provavo piacere nel vederlo così disperato e addolorato, pensavo che se lo meritasse, era la giusta punizione per gli anni di dolore che ci aveva fatto passare.
Mio padre se ne andò e per mesi non lo avrei più visto.
Ripresi la mia vita e cominciai una nuova lotta. Io e mia madre eravamo senza soldi, con gli ultimi risparmi prendemmo in affitto uno squallido monolocale di 30 metri quadri in cui vivevamo entrambi. Nel frattempo mia sorella era andata via, era partita per la Spagna, non aveva resistito a tutto quel dolore e si era concessa una fuga per continuare a sognare. Ma non gliene avrei mai fatto una colpa.
Trovai lavoro come lavapiatti in un ristorante, 12 ore di lavoro al giorno a nero per pochi spiccioli, ma era la mia unica certezza. I primi tempi, per mangiare, ci nutrivamo con gli avanzi del ristorante. Il mio datore di lavoro, avendo saputo la mia storia aveva deciso di aiutarmi in questo modo, ogni sera mi preparava un fagottino con del cibo da portare a casa. Era una situazione disperata, avevo paura di non farcela, mi aggrappai all' inspiegabile ottimismo di mia madre che, sorridendo, mi ripeteva sempre che ce l'avremmo fatta, che avremmo superato anche quell'ostacolo.
Mi feci forza per esserle d'aiuto ancora una volta e andai avanti, ma dentro di me c'era una ferita che non si voleva rimarginare. L'odio per mio padre non era diminuito, il solo pensare a lui mi accendeva una fiamma nera nello stomaco, così ogni tanto gli telefonavo per vomitargli addosso tutta la mia rabbia. Lui ascoltava passivamente, affranto, a volte piangeva e mi chiedeva scusa.
Inoltre mi isolai dal mondo, non avevo più amici né affetti, solo dolore e rabbia. Illudevo me stesso dicendomi che stavo bene da solo. “I rapporti umani sono fatti per soffrire” pensavo, “non ho bisogno di avere amici, o una fidanzata, perché tutto ciò genera altro dolore. Mi basta avere mia madre, mi fido solo di lei.”
DUE ANIME di Arsenio Siani
Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.