BIOGRAFIA AUTRICE
Daniela Nardi è nata a Napoli nel 1964, ha studiato presso il liceo classico Vittorio Emanuele II e in seguito ha frequentato l’Università Federico II.
Ha collaborato a diversi blog letterari, tra i quali Sul Romanzo e Il Momento di scrivere.
E’ stata membro del comitato di lettura di una piccola casa editrice genovese e da due anni si è trasferita nel basso Lazio con la famiglia.
Nel 2014 ha pubblicato con Lettere Animate la raccolta di racconti Carne Umana e sempre con la stessa casa editrice, nel gennaio del 2016 è uscito il suo primo romanzo Mille giorni d’Inverno.
PRESENTAZIONE
Caro Lettore,
raccontato in uno stile evocativo e con i toni della favola, questo romanzo breve narra le vicende di Mari Serrano e della sua famiglia durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale. Costretti, in conseguenza di un devastante bombardamento, a lasciare La Città, giungono come sfollati in un piccolo paesino dell’Appennino campano, Valliani, dove vivono alcuni parenti. Dopo i primi momenti di smarrimento in cui quel luogo appare come un contenitore vuoto, Mari e i suoi fratelli Luigi e Bruno, hanno l’opportunità di ritrovarsi con Ester, l’amica per metà semita, fuggita non solo dai bombardamenti ma dal dolore per la partenza della madre.
Dopo il suo arrivo, il paese sembra ritrovare vitalità e i ragazzi hanno l’opportunità d’incontrare personaggi diversi, come Salvo e Bruno, loro coetanei e il nonno don Peppino che ha la mania d’intagliare croci di legno con cui tappezza le pareti della sua casetta. Durante i decisivi mesi del 1943, i ragazzi Serrano combatteranno con la fame e le ansie della loro età, saranno protagonisti e testimoni di passioni travolgenti e atroci delitti consumati tra i campi e i pendini di Valliani, finendo con l’assistere inermi agli ultimi, terribili giorni d’occupazione nazista.
“Tutti i personaggi e gli episodi raccontati sono reali. L’autrice li ha elaborati al fine di renderli fruibili e armonizzati con la storia”.
Prefazione autrice
Nel corso degli anni ho ascoltato innumerevoli volte i racconti di mia madre e mio padre sulla loro adolescenza, legati in maniera indissolubile agli eventi bellici, al punto che mi è sembrato naturale trasporre su carta quelle parole così ricche d’esperienze dolorose, che però a me parevano lontane, estranee.
Scrivendo, e quindi cercando di compenetrarmi nelle loro situazioni, ho scoperto che quel senso di precarietà e di vuoto esistenziale che tanto caratterizzava i loro ricordi era comune anche ai miei anni di adolescente, a prescindere dagli eventi storici. Sono stati d’animo che, secondo me, caratterizzano fasi importanti dell’esperienza umana e in certi casi, inaspriti dagli eventi, lasciano un segno indelebile.
Questo racconto è un piccolo omaggio a chi ha subito il danno di non poter vivere serenamente la propria innocenza e che comunque ha trovato la forza di andare avanti.
Buona lettura...
MILLE GIORNI D'INVERNO
CAPITOLO I
Il tintinnio dei vetri è sommesso, imprevedibile, spietato.
La sirena d’allarme ulula per le strade e tanti confetti neri piovono dal cielo.
Mari è sola.
Sola con due bambini piccoli che la guardano attoniti.
La signora De Marchi, la mamma dei bambini, non c’è. È andata a far compere per Natale; beata lei che ancora può permetterselo.
– Ti lascio una mezz’oretta. – ha detto, mentre s’infilava un impeccabile cappotto color cammello coi risvolti e il collo di pelliccia.
È passata più di un’ora e ancora non si è fatta viva.
Il più grande dei due comincia a piangere, emettendo una specie di mi acuto che fa da controcanto a quello della sirena.
Mari vorrebbe urlargli Piantala!, ma sarebbe inutile e stupido: la paura fa venire voglia di piangere, piacerebbe anche a lei.
Il tremolio dei vetri aumenta d’intensità: stanno arrivando.
Boom!
Il boato è in lontananza, ma i muri vibrano, ondeggiano, tutto sembra sconvolgersi.
– Fuggiamo! – dice ai bambini e prendendoli per mano corre alla porta.
Sul pianerottolo incontra altri come loro che si muovono verso lo scantinato, come un’onda obliqua e torbida; gente che scende le scale in un silenzio paradossale, rotto solo dallo scalpiccio frettoloso dei piedi sui gradini e dall’ansimare angosciato dei più anziani.
Proprio mentre stanno per entrare negli scantinati del palazzo arriva la signora De Marchi con l’impeccabile cappotto sbottonato e l’aria sconvolta.
– Dio ti ringrazio, siete scesi! – e bacia e abbraccia i figli.
Liberatasi della responsabilità dei bambini, l’ansia di Mari è rivolta verso casa.
– Devo andare a casa! – grida e già è con un piede sulle scale, quando la signora De Marchi la ferma
– Non puoi andare fuori!
– Perché? – fa appena in tempo a chiedere stupidamente, che si scatena l’inferno.
BOOOOOM!
Il boato fa tremare le mura e oscillare le lampadine appese al soffitto. Tutti restano immobili, quasi senza respirare, incrostati nella loro stessa paura, temendo che un movimento brusco o un lamento possano innescare chissà quale reazione.
Ancora rombi d’aerei, a decine.
Alcuni sembrano sorvolare le teste fragili, i pensieri cupi di terrore; poi, il fischio sinistro delle bombe che precipitano e scoppi e boati che sovrastano tutto. Calcinacci che cadono sotto il tremore dei muri, preghiere sommesse e pianti dei bimbi, persone che si abbracciano col capo chino e altre invece, con gli occhi fissi al soffitto, contano il passaggio degli aerei, il numero delle bombe, cercano d’intuirne la direzione.
Un tremolio incerto della luce e il buio.
La gente si chiama, qualcuno urla, il capopalazzo ordina
– State fermi, nessuno si muova!
Una lama gelida attraversa lo stomaco di Mari. Non riesce a pensare a niente – a suo padre, a sua madre, ai suoi fratelli, a cosa potrebbe essere successo alla loro casa – la mente veleggia in un mare di naufragio, di macerie e di fine di tutto.
Non è possibile che accada ora, non è possibile che tocchi proprio a me!
Un misto d’irragionevole rassegnazione e ribellione muta le rimescola le viscere. Resta immobile in compagnia del panico, incapace quasi di respirare, con la terribile consapevolezza di essere esposta a qualunque destino, senza che possa farci niente.
Dopo un tempo interminabile la luce ritorna e gli aerei, col loro carico di morte, sembrano essere meno incombenti, finché tutto si riduce in un silenzio carico di tensione.
La sirena di cessato allarme risuona come un gemito liberatorio.
Per alcuni secondi tutto resta immobile, avvolto in un’aria satura di sudori e preghiere esaudite; poi ognuno si avvia e anche Mari esce con l’illusoria leggerezza nel cuore di chi ha scampato il pericolo.
Fuori tutto sembra normale, nell’assurdo senso che assume il significato di questa parola in tempo di guerra.
Le basta però svoltare l’angolo e piazza della Posta rivela lo sfacelo che ha prodotto l’incursione.
La metà dei palazzi che la circondano sono crollati o semidistrutti; un’ala delle Poste si è sbriciolata sulle scale che collegano la piazza a via Roma; sotto i calcinacci ci sono le lamiere contorte di un furgoncino e di alcune macchine e un fumo nero si leva in più punti. Le sirene dei pompieri lacerano l’aria. La gente che accorre cerca di sollevare a mani nude pietre, legname, tubi di ferro, fermandosi di tanto in tanto ad ascoltare tra le fessure i lamenti di qualche sopravvissuto. L’odore acre di fumo e polvere invade l’aria umida e fredda di dicembre e sembra penetrare nei vestiti, nei pori della pelle, nei polmoni, rendendosi indelebile e nauseabondo.
Devo assolutamente raggiungere le scale della Posta, pensa, e così si fa coraggio, attraversa la piazza a testa bassa cercando di non vedere, concentrata sul percorso da fare per poter tornare a casa – il più breve, il più facile – fatto di lastricati puliti e lucenti, di persiane aperte e visi che sorridono nell’attesa del suo ritorno.
Ma ogni passo affannoso l’avvicina alla realtà, all’orrore di un piede straziato sotto le travi, di un braccio che sbuca tra detriti insanguinati, di lamenti soffocati; raggiunge quelle benedette scale e all’improvviso, qualcosa o qualcuno le taglia la strada, una sagoma fluttuante, uno spettro, un’allucinazione che attraversa il suo sguardo e si schianta a terra deforme.
Qualcuno accorre con un lenzuolo per coprire quella visione, che forse è un incubo – sicuramente lo è – perché, anche se solo per un attimo, Mari ha visto. Una forza oscura e maligna la fa avvicinare, le ordina di verificare ciò che ha intuito. Solleva leggermente il lenzuolo e scopre che non è stata un’allucinazione, che è proprio così, quel corpo ha camminato senza testa!
Un uomo le strappa il lembo che ha in mano e urla di tornare a casa. Come un automa Mari prende le scale, attraversando il vano pericolante un attimo prima che il crollo di alcuni calcinacci rendano tutto impraticabile. Cammina, tenendo stavolta la testa dritta, guardando intorno lo sfacelo – senza sorrisi e attese – in una brina di sangue e carne bruciacchiata, per imprimere nella memoria ogni scena di dolore, ogni immagine di devastazione.
Sollevando quel lenzuolo ha spalancato la porta di un baratro, e sente di doverlo percorrere fino in fondo; non può più fare finta che tutto questo non esista. Così cerca caparbiamente di avanzare, scavalcando, facendosi spazio nella città sconvolta.
Gente corre in tutte le direzioni, invocando la Vergine o San Gennaro; pompieri e militari si affannano intorno alle macerie con pale e mazze di ferro, tentando di estrarre chi è rimasto sotto; cornicioni crollano con un fragore sordo, palazzi sventrati ostentano le loro ferite come maschere grottesche e feriti ricoperti di sangue vengono portati pietosamente a braccia. I morti vengono protetti da lenzuola compassionevoli.
Nella confusione Mari avanza con occhi aperti e limpidi, che inciampano di tanto in tanto in una richiesta di misericordia, fino a trovarsi davanti a un tram fermo sui binari fumanti e contorti.
All’interno sagome immobili sedute, lo sguardo lontano verso un punto che non potranno più raggiungere. Alcuni militari cercano di tenere a distanza la gente curiosa e disperata, che vorrebbe salire sul vagone per sincerarsi che non ci sia un proprio caro.
Tra quelle forme estranee che si affannano, ne scorge una familiare, e allora Mari risale il gelo che ha dentro, si spinge fino a lei, la chiama.
– Papà!
Lui si volta, le viene incontro e subito la gira di spalle per proteggerla, evitare che guardi – troppo tardi ormai. Camminano in silenzio e, senza dire una parola, suo padre si ferma, la fissa e le porge una carezza candida. Restano con gli occhi fissi l’uno nell’altra, in una specie di dialogo silenzioso.
Le parole, ora, sarebbero come la polvere che cade lenta sulla città sventrata.
È notte. Seduto con la moglie Rosa nella cucina buia a causa dell’oscuramento – dopo altri due attacchi e altre ore interminabili nella promiscua disperazione del ricovero – Eduardo Serrano, il padre di Mari, ha deciso: si parte.
Lo sguardo fisso sulla parete invisibile scrostata di vernice, gli occhi che l’attraversano, in un tumulto di immagini e stupore dolente su come sia possibile la guerra, un’altra, dopo quella finita poco tempo fa, che la terra del mondo intero è ancora impregnata del suo sangue e l’odore dei fumi mefitici dei gas non ha ancora raggiunto gli strati più alti della stratosfera e della ionosfera, per disperdersi tra le notti eterne.
La guerra.
Quella prima di questa, che l’aveva visto tenentino dei Bersaglieri, pieno d’ardore amorevole verso la Patria e, in seguito, sempre più incerto sostenitore di un conflitto di posizione contro nonsisachi, verso nonsisacosa; in fangaie umide e malsane, tra pidocchi e cimici che consumavano i corpi, quasi quanto l’attesa di un proiettile che fende l’aria, irrazionale e spietato. Trincee le chiamavano, ma erano fosse comuni di disperazione e noia nelle quali, annaspando, l’unica cosa che si anelava era che quell’assurda e insensata carneficina finisse.
La guerra.
Di nuovo, nonostante tutto, nonostante i cadaveri che ricoprivano ogni centimetro dei campi di battaglia, che ancora non avevano finito d’imputridire nei sacrari inutili, e le lacrime non erano ancora state prosciugate dai fiumi che le avevano accolte, e le urla dei feriti non si erano ancora disperse tra i corridoi degli ospedali, traboccanti dolore.
– Possiamo andare a Valliani, da tua sorella.
La voce di Rosa, arrochita dall’ansia, disperde gli infernali pensieri di Eduardo, riportandolo all’urgenza delle cose.
– Però come farai col lavoro?
– Farò il pendolare.
Ormai è deciso.
In camera, stesa sul letto, Mari – cullata dai respiri lenti e profondi dei fratelli accanto a lei – dopo aver ascoltato nascosta dietro il vano della porta, l’irrevocabile sentenza dei suoi, resta a fissare una macchiolina sul soffitto, illuminata da una implacabile luna piena.
Chissà perché, pensa, quando ci sono i bombardamenti, la luna sembra essere ancora più luminosa, così che ogni contorno, ogni piccolo particolare di tetti, viuzze, finestre ed edifici, viene riflesso come se fosse pieno giorno. Sembra quasi che ce l’abbia con la Città, che la prenda in giro.
E nella notte, rabbuiata dagli uomini e illuminata dal capriccio dell’astro celeste, si abbandona al languore della malinconia.
Lasciare tutto: parenti, amici. Abbandonare i luoghi in cui è cresciuta, le strade, i vicoli che conosce a menadito, pietra su pietra, dei quali si sente parte e che sono la sua casa, il suo rifugio, la sua coperta contro certi pensieri bui e complessi, che qualche volta irrompono come ospiti indesiderati; abbandonare le stanze della casa che sanno di biscotti e lenzuola di bucato, di cuscinate e risate sotto le coperte, i balconi profumati di begonie, i pomeriggi trascorsi alle finestre osservando il traffico di umanità varia, tra battute e pettegolezzi adolescenziali, per andare a nascondersi in qualche posto sperduto, dimenticato da Dio, per chissà quanto tempo… forse per sempre! Come un rigurgito acido risale il ricordo di morte e distruzione della giornata; il languore dolce di ciò che è stato viene spazzato via dalla violenza delle bombe. Si sente violata, derubata, deportata dalla sua vita di prima e le sembra così ingiusto che si alza di scatto, prende la sua cartella abbandonata in un angolo e cerca all’interno finché trova un pezzo di carboncino da disegno.
Sul muro accanto al letto, come una lucida e ineluttabile annotazione, scrive: 4 dicembre 1942, la guerra ci ha cacciato di casa. Niente ormai sarà più come prima.
"MILLE GIORNI D'INVERNO" di Daniela Nardi - Edizioni Lettere Animate
Caro lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.