BIOGRAFIA AUTORE
Antonio Junior Ruggiero, cameriere, giornalista e in quest’occasione scrittore. Nasce in un paese d’Irpinia che nessuno riesce a pronunciare da Roma in su, Atripalda. Era il 31 gennaio 1984, qualche anno dopo il famoso terremoto del quale sente continuamente parlare fin dall’infanzia, con una frase che si ripete in ogni racconto: “Chi c’aveva la casa è rimasto con la baracca, chi c’aveva la villa s’è fatto la reggia”. Muove i primi passi nel salotto di casa sua. Molti anni dopo, orami quattordicenne, spinto da un’irrefrenabile voglia di viaggiare, comincia a lavorare come cameriere in decine di pizzerie per mettere qualche spicciolo da parte. Riesce a girare il mondo ma per il buco nell’ozono non può farci nulla.
Nel 2008 prova a entrare nella Scuola di Giornalismo di Torino ma trova chiuso. Ci riprova il giorno successivo con più fortuna e riesce a presentare la domanda di iscrizione ai test d’accesso. Inspiegabilmente li supera e viene ammesso.
Sono anni meravigliosi che culminano nell’iscrizione all’albo dei professionisti e in una serie di premi giornalistici vinti grazie a una fortuna sfacciata della quale un giorno dovrà rendere conto. Intanto si specializza nel settore energia e ambiente, ma anche in questo caso per il buco nell’ozono non c’è nulla da fare.
Alla soglia dei trent’anni sposa una ragazza bella e intelligente che ama moltissimo e a qual punto è evidente che questo qui qualche santo in paradiso ce l’ha. Dopo due anni nasce un figlio, Elia, e scopre che la vita può essere meravigliosa. Subito dopo cambia idea davanti a un pannolino alle 3 di notte.
PRESENTAZIONE
www.controvuoto.com
Magari fosse stata solo paura di volare
Un libro tra le nuvole, che parte da una fobia, quella di volare, per parlare
di molte altre cose che ci fanno paura, della violenza, del bullismo,
del razzismo, ma senza proclami. Solo un pizzico di ironia.
C’è chi fa i conti con il passato, chi con le proprie debolezze o con i sentimenti e quindi con le persone. Io ho fatto i conti con le emozioni. Il progetto “controvuoto” nasce proprio da un’emozione, la paura per il volo.
Prima di questa avventura non mi ero mai chiesto a cosa servissero le emozioni. In realtà, se lo avessi fatto, avrei risposto che sono un ottimo premio da ricevere quando sono positive e una sorta di punizione, quasi un difetto di fabbricazione della mente umana, quando derivano da episodi negativi. Oggi non è più così.
Credo che una mia esperienza significativa non possa essere utile a chiunque, ma almeno a un altro sì. Ecco, io sto scrivendo per quest’altro, sto scrivendo per te, che come me nella vita hai qualche difficoltà a guardarti dentro.
Controvuoto è un’iniziativa senza scopo di lucro e indipendente che approfondisce temi come la fobia, la violenza, il bullismo e il razzismo attraverso il racconto delle emozioni e l’arma dell’ironia.
Il progetto si compone di un libro di esperienze fruibile gratuitamente (scritto da Antonio Junior Ruggiero con postfazione del dottor Salvatore Grammatico) e di una serie di approfondimenti video o testuali utili a comprendere l’altra faccia della paura.
Buona lettura…
CONTROVUOTO
Certe credenze
Dall’inizio dell’estate sta girando in rete una vignetta divertente. Raffigura un esorcista che rivolgendosi alle nuvole grida: “Novembre, esci da questo luglio!”.
Il mese di luglio è stato particolarmente piovoso, con il risultato che la metro a Roma ha avuto qualche difficoltà più del solito, visto che generalmente nella Capitale bastano due gocce perché tutto si rallenti e tutto si complichi. Sono di ritorno dal lavoro e alla fermata Cavour il treno è strapieno, tant’è che si sente odore di sudore nonostante l’aria condizionata sia fortissima. All’improvviso un urlo di donna e l’attenzione di tutti si rivolge a pochi metri di distanza da me.
Una signora straniera, probabilmente una turista tedesca, sta aiutando la figlia, all’incirca tredicenne, vittima di un tentativo di scippo da parte di due sue coetanee, chiaramente Rom o Sinti. La tecnica usata è scendere dalla metropolitana all’ultimo secondo e afferrare una borsa alla malcapitata di turno, che con le porte in chiusura e lo spavento per lo strattone ha più difficoltà a trattenere il bagaglio o a inseguire le malintenzionate.
Il problema è che questa volta il conducente si è accorto di tutto e ha riaperto le porte prontamente. Quindi ho davanti una delle tante scene un po’ surreali che si possono vedere a Roma, come in molte altre città.
Il gioco del tiro alla fune - cioè alla borsa - va avanti già da più del credibile e nessuna delle due contendenti vuole cedere. Ci vuole più tempo di quanto si possa credere perché la scippatrice capisca di avere poche speranze vista l’attenzione di tutti, così molla la presa e la rivale tedesca si riprende il quasi maltolto.
La cosa strana è che finita la competizione non sta succedendo praticamente nulla di particolare. I genitori teutonici continuano a gridare “polis!”, mentre tutti stanno lì a guarda la scena senza che nessuno si muova in alcun modo. Il tutto si è svolto in pochi minuti ma ha catturato talmente l’attenzione che solo ora mi accorgo di aver avuto il tempo di alzarmi dal sedile, affacciarmi sullo sfondo per capire cosa stesse accadendo, giudicare che tutto sommato non potevo fare granché e tornare a sedermi al mio posto, che intanto era rimasto libero! Non so se ci siamo capiti: a Roma, in una metropolitana piena di gente, sono riuscito ad alzarmi, allontanarmi e poi risedermi allo stesso posto. Non sono molti quelli che possono dire di averlo fatto.
Intanto le due Rom se ne stanno ferme davanti alla porta aperta della metro, senza paura o pentimenti, non scappano ma rimangono lì ferme, come se volessero vedere come possa andare a finire questa storia dimenticandosi di essere loro le protagoniste della vicenda. Sanno perfettamente che di polizia non se ne vedrà di certo e hanno assunto un atteggiamento quasi di sfida.
Quell’atteggiamento l’ho già vissuto in prima persona qualche anno fa. Ero su un treno da Roma verso Napoli, in un vagone semivuoto, e poco più avanti a me due ragazzini, non più di dieci o undici anni d’età, anche loro probabilmente Rom, si erano avvicinati a una donna sola, direi trentenne, infastidendola e chiedendole insistentemente soldi, così da distrarla in ogni modo. Temevo che alla prima reazione uno dei due avrebbe approfittato dell’attimo buono per infilarle la mano nella borsa e prendere quello che poteva.
Io sono intervenuto facendo la voce grossa, pensavo che vedendomi alto più del doppio rispetto a loro e urlante avrebbero lasciato perdere e sarebbero andati via. La loro risposta mi ha lasciato del tutto spiazzato, non me la sarei mai potuta immaginare, ero stordito. Uno dei due ragazzini ha cominciato a guardarmi fisso negli occhi e non ha abbassato lo sguardo neanche per un secondo; mi ha “pesato” in un attimo. Ha capito con una facilità degna di un grande conoscitore dell’animo umano che, anche se avevo sbraitato in quel mondo, non avrei mai avuto il coraggio di torcergli un solo capello, che in sostanza ero un buono, cioè probabilmente un fesso nel loro modo di concepire le persone.
Inoltre, con quello sguardo mi faceva chiaramente intendere di aver capito tutte queste cose, me lo stava comunicando come un giocatore di poker, come un pistolero del West a mezzogiorno nella gran via della città, come un adulto fatto e finito insomma. Quel bambino mi ha tenuto testa come le ragazzine davanti alle porte aperte della metropolitana stanno tenendo testa a quei turisti, nessuna di loro ha mai abbassato lo sguardo fino a ora, se la ridono quasi, sono perfettamente coscienti di cosa stia accadendo, di tutte le possibili conseguenze, e lo sono più della famigliola tedesca, più di me e di chiunque altro. Hanno capito tutto, sanno che non succederà nulla, che difficilmente qualcuno interverrà perché nessuno si prederebbe la briga di rovinarsi la giornata dietro a una storia come questa, sanno che la polizia non c’è e nella migliore delle ipotesi arriveranno due uomini della sicurezza interna ad allontanarle o poco più. In questo esatto momento, sulla metro verso casa, così come sul treno verso Napoli qualche anno fa, i bambini sono diventati gli adulti e gli adulti dei bambini, nell’indifferenza generale.
La sicurezza interna alla fine è arrivata e sono rimasti lì a parlare con le ragazzine e a calmare i turisti. Orami il momento di grande tensione e di principale interesse è passato, così molti passeggeri stanno facendo su e giù per il treno, dentro e fuori dalle porte, lamentandosi perché il seguito della scena che hanno gustato voracemente poco fa ora gli sta facendo perdere tempo, sta alterando l’artificiale scorrimento della routine quotidiana. Magari per colpa di questo imprevisto salteranno delle coincidenze, così da arrivare tardi a casa, probabilmente una mezz’oretta dopo il solito, perdendo l‘inizio del programma in prima serata o l’appuntamento con un amico. Insomma, tutti si preoccupano del tempo che stanno buttando via mentre qualcun’altro, incaricato per contratto di occuparsi di questi contrattempi, sta cercando di sistemare le cose come può.
Le porte della metro si chiudono all’improvviso e le due ragazzine diventano un’immagine sfuggente mentre ci allontaniamo. Non ho idea di cosa stia succedendo su quella banchina. Intanto, sul treno, chi aveva assistito alla scena commenta così.
«Che volete che sia, se ne vedono tutti i giorni di queste cose».
«Lo sanno benissimo chi sono ma non fanno nulla. Sono sempre le stesse ragazzine che si vestono da persone normali, come se non si riconoscessero subito lo stesso - chi sta dicendo questa cosa sorride - e ti scippano la borsa o il portafogli appena ti distrai».
«Dovrebbero arrestarle ma non possono fare nulla perché sono minorenni».
«Macché, qualcuno dovrebbe riempirle di botte così domani ci pensano due volte».
«Magari vengono a dirci che bisogna aiutarle, portarle negli istituti, fargli capire che hanno sbagliato e mandarle a scuola. Tempo perso, queste sono così e basta, non cambiano più. Poi, da quando hanno fatto entrare la Romania nella Comunità europea, non possiamo neanche più cacciarli via».
«Io non capisco perché non ci proteggono, perché non fanno stare qualche poliziotto nella metropolitana, se non lo mettono qui dove devono metterlo? Ormai non si vive più».
È in questo preciso momento che ho capito bene di cosa parlava Grammatico quando mi disse delle “credenze” con le quali viviamo. Sintetizzando il discorso del dottore e premettendo da subito che non si tratta di farina del mio sacco, il concetto fondamentale è che ognuno di noi ha delle credenze, appunto, che si è fatto nel corso della sua vita, cioè delle idee di fondo, dei modi di interpretare la realtà attraverso schemi fissi. Non solo percorsi stampati nella nostra mente di cui siamo sempre consci, ma anche quelli che si sedimentano a livello inconscio e si attivano di volta in volta quando c’è bisogno di una chiave per leggere la realtà, gli eventi.
Queste credenze, però, non si formano a caso e neanche volontariamente, spesso sono un meccanismo automatico. Affinché si creino e si stabiliscano negli strati del nostro modo di percepire il mondo, di riflettere, c’è bisogno di due fattori: un ragionamento logico che ci convinca, che possa essere sufficientemente accettabile dalla mente (“sento continuamente parlare di figli degli zingari che rubano, quindi devo diffidare ogni volta che vedo uno di loro”); e un trasporto emotivo, un’emozione, un sentimento che sorregga e confermi quel ragionamento (lo spavento per uno scippo e la paura che possa succedere ancora). Il risultato è una credenza pessima, che è all’incirca questa: “Tutti i bambini zingari, Rom, Sinti o quello che è, sono ladri e nel tentare di aiutarli si perde solo tempo”.
Oggi non solo ho compreso cosa sia una credenza e come si formi, ma soprattutto ho capito che non tutte sono uguali: ci sono quelle negative e quelle positive; con la differenza che le prime sono facili, comode, rassicuranti, economiche e risolutive, mentre le altre sono difficili, scomode, rischiose, dispendiose e non sempre portano a un risultato (almeno apparente).
Di fronte a due bambine sporche e diverse che tentano uno scippo a qualcuno, tra l’altro su un treno serale verso casa dopo una giornata di lavoro, la cosa più semplice, sbrigativa ed economica è pensare che tanto non c’è nulla da fare, che è inutile provare a capire chi siano quelle ragazzine e perché stanno facendo quello che stanno facendo - “lo fanno perché sono Rom, è semplice. Praticamente per ereditarietà genetica” - intervenire significherebbe perdere tempo sulla tabella di marcia che la vita di tutti i giorni ci ha imposto, anche solo pensare in maniera un po’ più approfondita su quello che appare, che sembra evidente, comporta una deviazione dai propri impegni, dal proprio tempo e dai propri obiettivi. Convincersi che tanto tutto è inutile è rassicurante, deresponsabilizza e assegna rapidamente un senso a tutto quello che accade, chiudendo la faccenda.
Fare qualcosa di diverso, anche solo qualcosa di minimamente diverso, richiede uno sforzo enorme, quasi contro natura. Quello a cui mi riferisco non è un’azione specifica ma una differente partecipazione. Non il gesto eroico di qualcuno che interviene per salvare la povera turista in difficoltà e assicurare le malintenzionate alle forze dell’ordine, ma la timida possibilità di pensare che se una bambina così piccola è così strafottente vuol dire che ha già dovuto imparare a difendersi e allora perché ha dovuto farlo? Chi l’ha costretta? Cosa la minaccia? Cosa la spaventa al punto da essere disposta a crescere così velocemente prima del tempo pur di non dover affrontare le conseguenze di essere una bambina come tutte le altre? Porsi tutte queste domande è drammaticamente sconveniente nel senso letterale del termine: non conviene!
Perché, se ci si pone queste domande, allora - magari! - non dico tutti, ma almeno uno sarebbe sceso da questo treno, avrebbe bloccato le due bambine stando però attento a non fargli male, avrebbe sì aspettato che arrivassero gli uomini della sicurezza ma si sarebbe anche chiesto se le ragazzine non sarebbero state semplicemente buttate fuori dalla metropolitana o affidate alla polizia, avrebbe fatto qualche domanda per capire cosa sarebbe successo.
Insomma, e queste sarebbero decisamente parole di Grammatico e non mie (almeno non prima che affrontassi tutte queste domande), se invece della paura e della rassegnazione ci si mettesse un po’ di “amore e i suoi fratelli” a sostegno non di un ragionamento logico e risolutivo, ma almeno di qualcuna delle domande che ho posto prima, allora credo che così, forse, si sarebbe creata una credenza positiva, l’idea che non tutti questi piccoli rubano ma che un bambino che fa uno sbaglio, magari perché costretto a farlo, può ancora essere recuperato e soprattutto - lo ripeto, soprattutto - vale comunque la pena provare ad aiutarlo!
Questo episodio mi porta all’idea che le persone, per essere buone, devono avere tante credenze positive, e quindi me le immagino estremamente stanche, affaticate, magari trasandate e in ritardo rispetto a tutti gli altri, anche rispetto a se stesse, a quelli che sarebbero dovuti essere i loro obiettivi, le loro aspirazioni.
Quelle piene di credenze negative, invece, me le immagino riposate, scattanti, sempre presenti e senza dubbi, anche più belle forse.
"CONTROVUOTO" DI ANTONIO JUNIOR RUGGIERO - www.controvuoto.com
Contatti: ruggieroantoniojr@gmail.com
Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.