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" DALLE CENERI DELLA FENICE " di MARCO CONTI

A tutte quelle persone che hanno imparato a specchiarsi nel cielo

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Caro Lettore,

L'autore ci riporta indietro nel tempo ed i nostri ricordi ai tempi della scuola riaffiorano. Ci rivediamo tra i banchi, con i vecchi compagni, con i giochi di un tempo. Emozioni accantonate nella scatola dei ricordi della nostra mente, si rispolverano e volteggiano nell'aria come giochi di nuvole al vento.

Le pagine di questo meraviglioso libro contengono parole che arrivano a toccare il cuore. Parole che raccontano storie di vita. La vita dei Bambini a cui tocca reprimere la loro spensierata giovinezza e riempirla di tristezze e dolori che a loro vengono regalati, ingiustamente.

E’ un gioco quello della vita, dove se sei fortunato riesci a crescere in una famiglia vera, e divieni adulto con la naturalezza e la gioia che ogni essere umano avrebbe il diritto di poter vivere.

“Dalle ceneri della fenice” un libro toccante e significativo. La fenice è un uccello mitologico, noto per il fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. Post Fata Resurgo “Dopo la morte torno ad alzarmi”.

E questo è il compito che gli Assistenti sociali come Marco Conti, si prefiggono e lavorano ogni giorno incessantemente per aiutare i Bambini a ritrovare la loro identità, a ritrovare un infanzia perduta, a ritrovare se stessi come individuo, come essere umano a cui è stato strappato il sogno di una famiglia.

La Casa Famiglia è un posto dove ogni Bambino che vi entra, ha la possibilità di rinascere a nuova vita, un luogo dove gli viene data l'opportunità di diventare un grande uomo.

Marco Conti è entrato nei cuori dei suoi Bambini, attraverso il riflesso dei loro occhi, attraverso la lucentezza delle stelle. Perché i loro occhi sono le stelle del nostro cielo, sono il futuro che illumina il mondo.

(Raffaella Lamastra)

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"Fu quando imparai a specchiarmi nel cielo che...

Capii che nessuno di noi era diverso, nessuno era peggiore.

Capii che eravamo accomunati dal semplice ma inesorabile fatto di non poter scegliere la propria origine.

Specchiandomi nel cielo capii che potevamo però scegliere il nostro futuro..."  

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Buona lettura...

 DALLE  CENERI  DELLA  FENICE

                I I   Capitolo

Fin da bambino sono sempre rientrato da scuola da solo. Mi facevo quel breve tragitto per arrivare a casa mia camminando con passo spedito, affamato, immaginando cosa mamma avesse preparato per pranzo, memorizzando visivamente le scritte sui muri del quartiere o pensando a che cosa avrei fatto nel pomeriggio.

Crescendo avevo iniziato a pensare alle ragazze, a come avvicinarmi a loro, a quale di quelle dedicare il prossimo gol la domenica mattina, a fantasticare su cosa avrei voluto e potuto fare con quella che di volta in volta assumeva il personale ruolo di attrice protagonista dei miei pensieri.

Anche la mattina andavo a scuola da solo. Tranne quelle rare volte in cui mio padre rientrava sobrio la sera prima e si ricordava di andare al lavoro. Quelle rare volte mi accompagnava in macchina, in assoluto silenzio, sintonizzando la radio a caso in modo di avere un espediente che gli consentisse di parlare il meno possibile, o di limitare la conversazione a qualche isolato commento di circostanza sul clima o sul traffico.

Quelle rare mattine lo sentivo litigare con mamma già dalla mattina presto, e capivo subito, mentre mi sparavo i capelli all'aria con una manciata di brillantina, che avrebbe preso nervosamente in mano le chiavi dell'auto e mi avrebbe richiamato a una maggiore celerità. Non di certo in modo che io arrivassi puntuale a scuola, ma in modo che lui potesse evadere dal suo alibi di normalità.

Ormai ero abituato. O forse rassegnato. Mi ero abituato a vedere mamma piangere, a vedere mio padre urlare e colpirla, con quella noncuranza tipica di chi dentro di sé ha ormai tramutato un tragico tabù in una quotidiana normalità. Mi ero rassegnato a non avere una famiglia come quella dei miei compagni di classe, a non vedere nessuno attendermi all'uscita di scuola.

Mi ero abituato a non avere.

A vivere nella trasparenza, a vivere all'interno di una nube di sofferenza e di disperazione, a vivere sapendo che prima o poi qualcuno avrebbe provveduto a dissolvere quella nube e a lasciarmi intravedere per la prima volta i raggi del sole. Mi ero rassegnato al pensiero che le cose non sarebbero andate avanti per sempre così, che mi avrebbero portato via.

Fin da bambino sono sempre rientrato da scuola da solo. Sempre, tranne quel giorno.

Avevo quattordici anni quando sono arrivato in casa famiglia. Avevo quattordici anni quando vidi per la prima volta qualcuno attendermi all'uscita di scuola. E non mi stupii più di tanto quando scorsi in lontananza la sagoma di quell'uomo da cui mamma andava ogni mese a chiedere i soldi per vivere.

"Devi fare da bravo quando andiamo da lui! E devi stare zitto! E non devi piangere! Se piangi ti porta via, ruba i bambini quello, che ti credi!"

E io sapevo che prima o poi lui sarebbe venuto a rubarmi, a portarmi via, e forse, sotto sotto, un pochino, ci speravo.

Tanto che quella mattina, quando lo vidi, mi venne spontaneo andare da lui, salutarlo come se lo aspettassi, entrare in macchina come se sapessi dove mi avrebbe portato, scorgere nei sedili di dietro la mia valigia, come se stessi andando in vacanza.

Sapevo che la mamma non ce l'avrebbe mai fatta. Sapevo che non si sarebbe mai svegliata, e sapevo che per lei svegliarsi sarebbe stato come ricadere nel suo incubo, in quell'incubo che l'aveva costretta su quel letto.

Sapevo che non si sarebbe mai più potuta svegliare, che forse non l'avrebbe neanche voluto, e che comunque non l'avrebbe mai fatto.

Mi spiegò tutto con calma, con chiarezza e semplicità. Con la voce decisa e rassicurante di chi è chiamato a indirizzarti verso un percorso diverso, di chi ti ha appena "rubato" per offrirti una nuova opportunità, di chi è convinto che la tua vita e la tua crescita stiano iniziando solo adesso.

Gli risposi con un groppo in gola, con quella mia voce drammaticamente spontanea, con la tragica consapevolezza di chi sa che la sua mamma non si sarebbe mai più svegliata, e che suo padre avrebbe trascorso gran parte dei suoi giorni dove non avrebbe più potuto nuocere a nessuno.   Avevo quattordici anni quando arrivai in casa famiglia, quando la macchina del "ladro di bambini" varcò il cancello che immetteva nel cortile della mia nuova abitazione.

"Come ti senti? Non hai detto una sola parola durante il viaggio..."

"Strano..."  

"Strano e basta? Hai paura?"

"Hai mai fatto una partita di calcio?"

"Beh... da giovane ne ho fatte parecchie..."

"Hai presente la domenica mattina? Quando ti ritrovi zero a zero a un minuto dalla fine, un tuo compagno lancia lunga la palla e tu la insegui...non vedi più nessuno alle tue spalle, non pensi a quello che sta succedendo o che è successo dietro di te... vuoi solo raggiungere la palla e portarla più avanti possibile.  E per fare gol non cerchi di ricordarti i tiri che hai fatto prima, non esiste più il prima.   Scegli un lato, quello che pensi essere quello giusto, guardi il portiere poi picchi la palla lì, più forte che puoi, senza voltarti, con lo sguardo fisso di fronte a te".

Tempo prima avevo letto da qualche parte una frase di un signore danese, il quale sosteneva che la vita si può capire solo all'indietro, ma che si vive in avanti...

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"DALLE CENERI DELLA FENICE" di Marco Conti  - Editrice AmicoLibro - Le Lune

 

Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

 

 

 

 

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