Secondo la legge (italiana ed europea) e in base ai contratti di lavoro nazionali collettivi non dovrebbe sussistere alcun problema, tanto nel caso di aziende private che di enti di pubblico impiego e di concorsi pubblici.
Ma spesso le cose, nella realtà dei fatti, vanno diversamente.
Basta fare riferimento ad alcuni casi balzati agli onori della “cronaca”, particolarmente nel caso di concorsi di accesso all’Arma dei Carabinieri o alla Polizia di Stato. Queste situazioni hanno fatto sì che i soggetti discriminati ed espulsi dal concorso per l’esposizione di piccoli “tatuaggi” facessero ricorso al giudice e si vedessero riconoscere la piena leggitimità ad accedere alle selezioni.
E così, anche in ambito aziendale e privato le faccende non sembrano andare tanto diversamente, soprattutto in riferimento a posizioni e ruoli che prevedono il contatto diretto con fornitori e clienti.
Al di là di quanto asserisca e garantisca la letteratura legislativa, casi di discriminazione “motivati” dalla presenza di tatuaggi visibili sul corpo dei lavoratori sono ancora molto frequenti.
Il dato formale–teorico–legale viene in parte contraddetto da quello pratico–sostanziale, con ovvie ripercussioni in termini di incertezza del diritto e di un continuo aumento dei ricorsi alla giustizia
In un contesto lavorativo dovrebbe essere solamente il buon senso a guidare candidati, selezionatori, sindacalisti e giudici, per fare in modo che situazioni sui generis non costituiscano la norma, prevenendo ogni sorta di controversia di questa entità.
Ad un tatuato non importa che altri lo siano oppure no.
La discriminazione per futili motivi rappresenta una mannaia sociale: dietro ad un velo di pelle tatuata potrebbe anche nascondersi una persona in grado di salvarci la vita.