Di nuovo per voi dal Medio Oriente, scritto in uno stralcio del diario segreto nel marzo 2007, Dahab.
Ieri bufera di vento per tutta la notte e oggi non è da meno. Non ho mai sentito il vento fare tanto rumore in quest’albergo. Ho dormito pochissime ore e comunque non avevo sonno.
Oggi ho passato ore nascosta come un gatto sulla terrazza di un bar sulla spiaggia: nessuno mi aveva vista salire e l'unico modo per non farsi portare via dal vento era sdraiarsi piatti piatti a terra tra i grandi cuscini. Il tappeto sotto di me strattonava come fosse vivo, la palafitta su cui ero sdraiata dondolava di continuo come una zattera in mare e la palma di lato, schiaffeggiata così violentemente, mi faceva temere un cedimento. Così per ore a occhi chiusi ho pregato Dio che non mi uccidesse con un ramo caduto e che il tappeto sotto di me non fosse magico e non cominciasse a volare. Una notte di tanti anni fa, forse da bambina, ho sognato di sorvolare paesaggi mediorientali e moschee su un tappeto volante, lungo un fiume, molto prima di visitarli.
Sdraiata su quella superficie in legno traballante pensavo a quanto a fondo la società occidentale ci abbia inculcato il senso di colpa collegato a ogni momento di “improduttività”. Ho pensato che è tutta una leggenda. Ho pensato che anziché sentirci a posto con la coscienza e orgogliosi di noi la sera in base a quante ore abbiamo corso e sputato sangue di giorno, in base a quanto siamo riusciti ad accatastare e a dimostrare ogni minuto, a quante risposte automatiche date o quanti pezzi fatti in assenza mentale, dovremmo essere soddisfatti di noi solo in base a quante ore di benessere semplice siamo riusciti a procurare a noi e agli altri, in base a quanto tempo siamo riusciti a rimanere inermi con noi stessi e in pace con il mondo senza scappare via.