Ieri sera mi sentivo sola e ho incontrato un amico buddista tedesco residente a Dahab da anni. Abbiamo bevuto un tè insieme alla fine di una giornata che ero riuscita a riempire con interessi miei: mentre decido quanto stare qui ho comprato una bicicletta nuova, poi mi sono regalata un bel massaggio. Dopo il tè abbiamo cenato insieme e ci siamo ritrovati a guardare le stelle fumando una sigaretta nel buio della spiaggia dell’Assala, il posto che ho amato dal primo momento. Abbiamo parlato della vita e della mente.
Gli ho raccontato cose che non avevo mai raccontato a nessuno. Il mio sogno simbolico che riguardava sia Playa del Carmen, in cui vivevo prima, che Dahab: un bellissimo luna park colorato, attraente e vitale costruito su una nuvola, di cui scorgevo all’improvviso le basi di vuoto. Sotto c’era il nulla. Questo è quello che mi spaventa di Dahab - in Europa si vive su dei binari precisi. Lui me l’ha girata in un altro modo e sarebbe bello che dicendomi questo fosse riuscito a modificare anche il mio destino qui. Lui sa che Dahab non ha basi, come dico io, sa che il Sinai non ha un “pavimento” sotto ed è per questo che io mi sono sentita mancare la terra sotto i piedi. Ma lui lo vede come un cuore pulsante a mezz’aria, sospeso ma stracolmo di vita. Cosa che lo rende ogni anno diverso, e a detta di tutti è vero che qui le cose vanno più veloci e la vita è più intensa. Ha ragione, non è detto che la mancanza di un pavimento e di fondamenta non possano portare a qualcosa di altrettanto valido, vivo e ricco.
Poi mi ha detto di andare alla mia velocità, di non modificala per gli altri per questa paura che ho di spaventarli, com’è già avvenuto più volte. Non nasconderti, non limitarti, sei un potenziale enorme, mi ha detto. Ha perfino concordato sul fatto che in certi periodi va bene anche farsi travolgere dalla vita e smettere di cercare di essere meditativi come faccio quando le cose non vanno come vorrei. Mi venuta una gran voglia di essere me stessa al cento percento, cosa che forse ho sempre un po’ evitato per la paura che io stessa mi faccio, la paura della follia, la paura di perdere equilibrio e fiducia in me quando sento quanto potrei correre e bruciare, saltando anche senza ritegno tra un rischio e un pericolo. Mi è venuta voglia di farlo ancora di più, di produrre con ancora maggiore ispirazione, di amare senza ritegno e di non precludermi nessun viaggio e nessun mezzo progetto. Forse così si sbloccherebbero le cose, anche se a detta di tutti già ogni anno dei miei vale come tre di un italiano normale, perlomeno di quelli che conosco. Ma che cos’è “normale”?
Sotto quelle stelle inenarrabili mentre mi parlava di queste cosa pensavo veramente quanta paura mi fa l’idea di vivere con una me stessa alla sua piena potenza, una me stessa espansa senza più i freni creati da idee, paure e le influenze che, per scelta, ho fatto mie; una me stessa che davvero si comporti come persona senza argini, anziché restare in mezzo per la paura di andare a fondo. Sarebbe un suicidio o sarebbe esprimere realmente quello di cui con la mia vita sono portatrice qui?
Eccomi di nuovo immersa nel cuore pulsante di Dahab dopo i primi giorni di adattamento. Come ogni volta i primi due giorni la polvere mi sembra sporco e camminare senza scarpe mi sembra deplorevole. Tempo due giorni e la polvere diventa pura sabbia fine di deserto e camminare senza scarpe una necessità.
Devo trovare riviste per cui scrivere, orecchie che mi ascoltino, qui potrei creare pulsazioni nuove dal centro del cuore del Sinai ogni singola settimana dell’anno e non ripetermi mai. Voglio far sognare la gente, istruirla, farla divertire, insegnare colori che non hanno mai visto, come quelli dei miei sogni, che non esistono neanche nella realtà. Voglio trasportare l’immaginazione delle persone, farla danzare come sa ma ha scordato, unificare le anime del mondo, ricordare a me e agli altri, spalancare visioni e poteri.