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POETI INCOMPRESI

Un marchio dentro

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E’ innegabile che tutti gli stranieri che han scelto di vivere qui a Dahab abbiano un fondo insanabile di poesia. Deve essere qualcosa di inestirpabile e caparbio, come un marchio, che non permette di restarsene tranquilli fermi dove si è nati. La tedesca che gira su una vecchia e durissima bicicletta vestita con due stracci con una cassetta per la frutta montata come portapacchi. La signora austriaca dalle bellissime gonne hippy e dalle decine di veli, sempre combinati secondo sapienti sfumature di colore, che lavora nell’albergo in stile riad. Le ragazze bianche con bimbi meticci che vestono da hippei e tengono la contabilità di un negozio sdraiate su cuscini o sedute sulla sabbia. Signore che escono dall’acqua con le treccine come liceali. I massaggiatori delle capanne davanti alle onde, tra le pareti fatte di soli veli mobili nel vento, dove non servono CD di mare finto. E poi io, perfettamente a mio agio nello scrivere a questa laptop seduta per terra su un tappeto nella mia stanza assolata.

Non si può non essere poeti se hai lasciato tutti i comfort e i tuoi punti di riferimento per questo. Forse neanche lo sanno, ma per me è chiarissimo e inconfutabile che nell’anima di ognuna di queste persone si nasconda un poeta inespresso, un ribelle romantico.

Pagherei perché i miei amici stranieri di qui e di altrove potessero leggere i miei libri. E pagherei perché i miei cari e i miei amici in Italia mi vedessero anche in questa pelle, quella del Sinai, dove tutto si trasforma. Sarebbe il modo migliore per conoscermi. Invece quasi tutte le persone hanno solo metà della mia anima. 

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